Presentazione

Nel momento in cui, dopo un lungo periodo di silenzio, sta per uscire l’ultimo film di Jean-Luc Godard, è un bene che venga proposta una retrospettiva quasi integrale della sua opera. Poiché risulta sempre più chiaro quanto questa segua una traiettoria complessa e ricca che il tempo permette di cogliere al meglio. È composta da una successione di periodi che obbediscono ognuno a un principio interrogativo. Nessun film di Godard si adagia sulla risposta, ma si pone come domanda. Si tratta di un'opera febbrile, inquieta, che interpella e si rifiuta di proporre la/le soluzioni. Il sapere, qui, è al servizio della conoscenza. Non a torto Godard ritiene di far parte di un universo scientifico. Il cammino che rivendica è quello di un ricercatore di laboratorio. Il perché ha la meglio sul come. E nulla lo infastidisce o lo diverte (dipende) più del cinema che commenta.

Il primo periodo (dagli anni '50 al '59) sarà dunque quello della riflessione critica, quello dei "Cahiers du Cinéma" (gialli), dove, difendendo i film e i cineasti che lo appassionano, egli manifesta le sue esaltazioni, i suo desideri, i problemi che lo attanagliano, i suoi entusiasmi e i suoi rifiuti. Certo, è presente una veduta d’insieme e da questo punto di vista egli si allinea alla politica degli autori perpetrata dai suoi amici della rivista, ma ciò che colpisce è piuttosto il versante 'colpo di fulmine'. E questo ha a che fare con l'istante. Già qui emerge nettamente la preminenza che egli accorda all’istante rispetto alla durata, elemento che si manifesterà in tutta la sua opera. Più precisamente, che andrà a costituire tutta l’opera. Nonostante questo, la durata non viene dimenticata. Il primo articolo che Godard scrive a vent’anni, nel 1950, sulle pagine della "Gazette du Cinéma" si intitola 'Cinéma et Politique'. Tema che annuncia quello che sarà il soggetto eminente che egli non smetterà mai di trattare, neppure nel suo ultimo film intitolato Socialisme. Questo periodo gli permette di porre in evidenza un elemento costitutivo del cinema: il montaggio, che fa a pezzi la menzogna del racconto cinematografico inteso come registrazione del movimento. Ora, la verità è che il film è costituito da ventiquattro immagini fisse al secondo, 24 fotogrammi, che un ingrannaggio macchinico trascina a velocità costante, in modo da suscitare l’illusione del movimento e della vita. Dunque, 24 istanti quantitativi procurano una pura impressione qualitativa. Godard comincia a intuire il possibile rapporto che il cinema mantiene nei confronti della scienza moderna. Non osa ancora trarne tutte le conseguenze, ma avverte che il cinema permette di entrare in una verità che è quella introdotta dalla fisica quantistica. Sarà dunque a quell’epoca che egli estrae le prime possibilità con e sopra il montaggio. L’occasione gli viene offerta da Truffaut, il quale ha appena terminato di filmare le inondazioni devastanti avvenute nei dintorni di Parigi. Vuole farne un film di finzione documentaria intitolato Histoire d’eau. Ma ben presto egli si ingarbuglia, non sa più da che parte immergere la sua storia. Godard, gli propone dunque – perso per perso – di trasformarlo in un divertimento sperimentale, e di puntare sulle rotture continue: nel racconto lineare che si moltiplica, nella successione delle immagini che spezzano ogni continuità interponendosi le une alle altre (già appaiono i 'neri' che si intromettono tra le inquadrature), delle voci che si trascinano da 'in' a 'off', ecc., in breve, è un trionfo della fantasia e della libertà. In breve, è soprattutto la prima messa a punto di un sistema godardiano che andrà sviluppandosi sempre più in corso d’opera.

Inizia dunque il secondo periodo, all’epoca terribilmente innovatore, e accolto quasi come classico, oggi: una successione d’opere e di capolavori che parte da À Bout de souffle (1959) per concludersi con Week end (1967). À Bout de souffle non ha certo il fiato corto. Con allegria ed entusiasmo Godard spazza via quasi tutte le regole sclerotizzate imposte dalle convenzioni accademiche del cinema considerato di qualità. Pur rispettandone alcuni aspetti. Spetta allo spettatore il compito di riconoscere lo schema di ciò che potrebbe essere un film poliziesco, solo che quest’ultimo si sottomette al film d’amore. Per lo spettatore così come per il protagonista, importa solo come andrà a finire il rapporto passionale. Il tono romantico che accompagna il nuovo sguardo della gioventù degli anni ’60 scatena un vero successo di pubblico e pone Godard accanto ai professionisti del settore. Lungi dall’accontentarsi di questo, egli si permette qualunque audacia. Il suo secondo film osa trattare negli anni ’60 della guerra in Algeria, della lotta terrorista tra OAS (Organisation armée secrète) et FLN (Front de libération nationale), così come della tortura, filmata con realismo da reportage. Cinema e Politica, dunque, ma trattate globalmente, non solo come soggetto, ma prima di tutto come oggetto. In particolare per il cinema. Questo film è forse quello che ci introduce nel migliore dei modi al pensiero cinematografico di Godard. In particolar modo, nella sequenza delle foto tra l’eroe dell’OAS e la ragazza del FLN. La sequenza ha inizio con una panoramica filata dall’alto su un palazzo, di modo che si abbia l’impressione di osservare un pezzo di pellicola tenuta immobile dal basso all’alto, che una macchina da presa descrive rapidamente. In poche parole, la mossa della macchina a presa dona movimento alla successione di immagini fisse che ci vengono (rap)presentate. È un tranello. La verità è che tra ogni fotogramma fisso giace una rottura. E che il tempo che crediamo di veder scorrere non è che una successione di quantità temporale fossilizzata. E che dunque l’occhio è bombardato da molteplici particelle quasi istantanee. Questa intuizione annuncia uno degli elementi più sconcertanti per lo spettatore: il fatto che Godard filmi sempre più l’universo secondo una concezione atomica. Da qui la frase che giunge nella scena tra la ragazza e l’eroe. Egli afferma: "la fotografia fissa la verità. Il cinema filma la verità 24 volte al secondo". Facendogli dire questa frase, il nostro cineasta sembra perpetuare il punto di vista dei suoi maestri (i fratelli Lumière, Renoir, Rossellini, André Bazin). Ma due o tre anni più tardi egli rettificherà quest’affermazione in maniera definitiva, grazie a questa nuova riflessione: "questa non è un’immagine giusta, è giusto un’immagine".

Detto questo, evidenziare che la macchina cinema si fondi su (e con) la rottura e la frattura, comporta una serie di conseguenze sulle quali il nostro cineasta fonderà la sua scrittura, stabilirà le sue ricerche, fino a toccare il tabù delle regole della rappresentazione. In breve, sconvolgerà, in tutti i sensi del termine, le abitudini dello spettatore che, sempre più, finirà col rifiutarlo. Tutto questo ha inizio con il racconto, di cui si mette in discussione la continuità della linea narrativa, e dunque la concezione dell’azione. Di conseguenza, come renderne conto? Con l’invenzione di una nuova drammaturgia che sovrapponga diversi livelli di coscienza o d’impressione. Grazie a quali mezzi? Facendo uso della concezione materiale del montaggio, cioè partendo dalla reale costituzione di una tavola di montaggio per pellicola. Constatiamo che vi sono prima di tutto due rocchetti su cui sfila la colonna immagine. Ve ne sono poi altri due destinati alla colonna dei dialoghi. Dietro si piazzano i due rocchetti previsti per la colonna suono e gli effetti. Poi, più vicini al montatore, ecco due nuovi rocchetti previsti per la musica. Queste quattro bande, una per l’immagine e le altre sonore sono la figurazione delle colonne essenziali per un montaggio che preceda il missaggio. Nel cinema tradizionale, sappiamo che le quattro colonne scorrono parallelamente e con identica velocità di scorrimento, e che le tre sonore sono lì soprattutto per sostenere, risollevare, valorizzare gli effetti visivi. Ma il pensiero godardiano, gioiosamente anarchico, non comprende perché le colonne, dal momento che scorrono parallelamente e alla stessa velocità, non possano essere trattate tra di loro in maniera paritaria. Perciò, talvolta sarà la tale colonna a prendere il sopravvento sulle altre, poi un’altra, poi saranno sincrone, poi a-sincrone, ecc. Grazie a questa intuizione, Godard inventa nuovi effetti di una modernità tale da rivalizzare con i più importanti artisti contemporanei che si occupano di percezione, sia concettuale che sensoriale. Quando in Sauve qui peut (la vie) (1979) escogita quel finale sconvolgente che mostra improvvisamente i musicisti della colonna sonora apparire sullo schermo per interpretare una musica lacerante, Godard ottiene un effetto emozionale che non ha pari.

Questa introduzione non può affrontare la moltitudine di novità che il cinema di Godard ci ha consegnato. Per il lettore spettatore ricorderemo gli altri periodi che si susseguiranno in questa retrospettiva. Il periodo militante dal ’67 al ’72, che vede il cinema al servizio della causa rivoluzionaria e la causa rivoluzionaria al servizio delle nuove forme cinematografiche (film tracts, di propaganda). Poi dal ’72 al ’79 la messa a punto di un lavoro di ricerca sul video, arrivando anche al film porno (Numéro Deux). Poi la nuova epoca che si apre nel ’79 con Sauve qui peut (la vie), sorta di ritorno al periodo dei grandi film di finzione con attori di primo piano, ma realizzati con tono inedito. Per esempio, un nuovo trattamento della luce e del colore. Ai toni semplici dei colori puri degli anni ’60 fa seguito un trattamento della luce e dei colori che rielabora una nuova concezione del chiaro-scuro. Per quanto riguarda l’ultima parte dell’opera, inutile raccomandare l’opera nell’opera: Histoire(s) du cinéma(s). Il titolo stesso, con quelle due 's' tra parentesi, ci dona il profondo senso di ricerca di questo grande artista 'scientifico': ogni storia è costituita da una sovrapposizione di altre storie; tutto il cinema è costituito da altre immagini cinematografiche che si sovrappongono visivamente sullo schermo.


Jean Douchet
(traduzione di Rinaldo Censi)