KES

(Gran Bretagna/1970) di Ken Loach (111')

T. it: Kes; Sog.: dal romanzo A Kestrel for a Knave di Barry Hines; Scen.: Barry Hines, Ken Loach, Tony Garnett; F.: Chris Menges; Mo.: Roy Watts; Scgf.: William McCrow; Mu.: John Cameron; Su.: Peter Pierce, Tony Jackson; Int.: David Bradley (Billy Casper), Freddie Fletcher (Jud), Colin Welland (Farthing), Lynne Perrie (Sig.ra Casper), Brian Glover (Sugden), Bob Bowes (Gryce), Robert Naylor (MacDowall), Trevor Hesketh (Crossley), Geoffrey Banks (professore di matematica), Eric Bolderson (il fattore); Prod.: Tony Garnett per Kestrel, Woodfall Films; Pri. pro.: 8 gennaio 1971
35mm. D.: 111'. Col. Versione inglese / English version
Da: MGM per concessione di Hollywood Classics
Restauro digitale realizzato nel 2011 da Criterion, con la supervisione e l'approvazione di Ken Loach e del direttore della fotografia Chris Menges / Restored digitally in 2011 by Criterion, supervised and approved by Ken Loach and director of photography Chris Menges

Presenta Lee Kline

Lo stile di Kes fu una conseguenza del mio incontro con il cinema ceco, che mi fece sentire che alcune delle cose su cui avevamo lavorato erano un po' superficiali.
Il direttore della fotografia di Kes fu Chris Menges. Chris era stato l'operatore di macchina di Poor Cow e in seguito aveva lavorato con il cameraman ceco Miroslav Ondriček in If... (1968) di Lindsay Anderson. Fu un'esperienza molto fruttuosa per Chris perché confermò le sue opinioni su come la luce dovesse essere utilizzata, quali lenti fossero adatte e quali no, come contenere l'azione. Parlammo molto di questo e stabilimmo che lo sforzo non doveva essere quello di far fare alla macchina da presa tutto il lavoro, ma quello di rendere ciò che si trovava di fronte a essa il più possibile autentico e veritiero. Il lavoro della macchina da presa doveva essere quello di registrare l'azione con partecipazione, ma in maniera discreta e non con leggerezza. Così quando ci accostammo a Kes ci fu un consapevole allontanamento da uno stile da reportage, incalzante, in favore di un tipo di fotografia più riflessiva, consapevole, una fotografia che possedesse una luce più consona all'azione che veniva filmata. (...) L'idea era quella di illuminare l'intero luogo dove si svolgeva l'azione, piuttosto che adattare le luci alla sola inquadratura. Questo era molto importante, perché voleva dire che potevamo dispensare gli attori dal rispettare i segni che solitamente delimitano il loro campo d'azione, e questo concedeva loro di muoversi liberamente. Allo stesso tempo non ci dovevamo preoccupare di immergerli in un cono di luce o di sparare loro la luce negli occhi, che è la maniera tradizionale in cui si riprende una persona. Volevamo illuminare lo spazio in modo tale che la luce cadesse democraticamente, ma senza ostentazione, su tutti.
(Ken Loach, Loach secondo Loach, a cura di Graham Fuller, Ubulibri, Milano 2000)

Se il perfezionamento del suono in presa diretta è una delle grandi conquiste del cinema moderno, una delle sue conseguenze più proficue sul piano artistico è la fusione documentario-finzione, dove il racconto si giova di una nuova naturalezza nella direzione degli attori e nelle riprese sui luoghi stessi dell'azione. I film sull'infanzia, tanto inclini a scadere nell'artificioso, ritrovano così una freschezza che spesso fa loro paradossalmente difetto. Perché il bambino è un attore nella sua stessa natura e voler ottenere da lui una recitazione, una posa, equivale spesso a fissarlo in un'attitudine. Qui David Bradley ha una presenza prodigiosa. Il film di Ken Loach, dal titolo enigmatico e per noi interrogativo, è innanzitutto un ritratto sconcertante di verità di un bambino delle Midlands (il film fu girato a Barnsley, città natale dell'autore del romanzo, Barry Hines). È anche un trattato di caccia col falcone, un quadro dell'ambiente scolastico, uno sguardo gettato su una città dell'Inghilterra del Nord con i suoi pub, i suoi negozi, le sue sfide reciproche, una lezione di fonetica e di dialetto locale. Estraneo ad ogni messaggio, ad ogni didatticismo, Kes costituisce nondimeno una severa constatazione del fallimento di un sistema educativo, dell'indifferenza degli adulti, di dieci anni di cattività di un bambino che ritrova nel falcone [...] adottato, un compagno di libertà. E quando seppellisce i resti del suo falcone, si può già leggere in filigrana l'insuccesso di una vita.
(Michel Ciment, Kes, "Positif", n. 119, settembre 1970)

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