WIND ACROSS THE EVERGLADES

(Stati Uniti/1958) di Nicholas Ray (93')

T. it.: Il paradiso dei barbari; Scen.: Budd Schulberg; Dial.: Sumner Williams; F.: Joseph C. Brun; Mo.: Georges Klotz, Joseph Zigman; Scgf.: Richard Sylbert; Co.: Frank L. Thompson; Op.: Saul Midwall; Mu.: Paul Sawtell, Bert Schefter; Su.: Ernest Zatorsky; Ass. regia: Charles H. Maguire; Int.: Burl Ives (Cottonmouth), Christopher Plummer (Walt Murdock), Chana Eden (Naomi), Gypsy Rose Lee (Sig.ra Bradford), Tony Galento (Beef), Sammy Renick (Loser), Pat Henning (Sawdust), Peter Falk (lo scrittore), Coly Osceola (Billy), Emmet Kelly (Bob), MacKinlay Kantor (il giudice Harris), Totch Brown, George Voskovec (Aaron Nathanson), Curt Conway, Sumner Williams (Windy), Howard Smith (George Leggett); Prod.: Stuart Schulberg per Schulberg Productions; Pri. pro.: 20 agosto 1958 (New York)
35mm. D.: 93'. Col. Versione inglese / English version Da: Cinémathèque Suisse per concessione di Hollywood Classics

Il montaggio finale "ridusse a poco più della metà le impraticabili tre ore iniziali. Il risultato, come ammise lo stesso Ray, è un film dalla continuità narrativa spesso scricchiolante. Nondimeno, anche se in seguito il regista e lo sceneggiatore tesero a liquidare la loro collaborazione giudicandola totalmente disastrosa, il film resta un risultato degno di nota, con anni di anticipo sui tempi e, malgrado tutti i problemi incontrati nella realizzazione, un'opera chiave nell'evoluzione stilistica e tematica dell'oeuvre di Ray. Innanzitutto porta in primo piano l'interesse del regista per l'etnografia e la cultura popolare (e di conseguenza per l'ecologia e la protezione dell'ambiente), che si era già manifestato in modo meno esplicito in opere precedenti come Il temerario, All'ombra del patibolo, La donna venduta e La vera storia di Jess il bandito, e che avrebbe raggiunto il suo apice in Ombre bianche. Inoltre prefigura Ombre bianche, We Can't Go Home Again e Nick's Film - Lampi sull'acqua, nel senso che in uno schema essenzialmente narrativo Ray inserisce sequenze che rimandano più al documentario che al film di finzione. Anzi, questo è forse l'ibrido più bizzarro di Ray; mentre vari suoi film precedenti funzionano in parte come commistioni di generi (il thriller e il film romantico, il noir e il dramma socialmente impegnato, e via dicendo), Il paradiso dei barbari non solo mescola tradizionali motivi western, melodramma in costume e impegno ecologista, ma riesce a mettere insieme poesia, metafisica e azione violenta in un formato stilistico che è in parte narrazione tipicamente hollywoodiana, in parte film d'autore e in parte ricostruzione storica semidocumentaria. Nello stesso tempo, pur segnato dalle molte divergenze tra Ray e Schulberg, il film è tipicamente un "Ray" per quanto riguarda i protagonisti e la loro rivalità e per il loro rapporto con lo spazio in cui vivono. Di fatto, se l'ambientazione contrasta nettamente con il deserto di Vittoria amara, la situazione di base è notevolmente simile a quella del film precedente e anzi di molti film precedenti di Ray. Dato che la struttura narrativa è molto simile a quella del western tradizionale - uno straniero entra in una città sul punto di diventare un luogo "civile" e cattura quasi da solo una criminale banda di bracconieri (l'equivalente dei ladri di bestiame nei western) che vivono nelle paludi - sulle prime è facile vedere Murdoch come l'eroe e Cottonmouth come il cattivo. Nel prosieguo del film, però, Ray sfuma i contorni dei suoi personaggi in modo da sottolineare, come nel caso di Leith e Brand [in Vittoria amara], sia le loro differenze che le analogie. Entrambi sono emarginati e ribelli
(Geoff Andrew, Wind Across the Everglades, in Id., The Films of Nicholas Ray. The Poet of Nightfall, BFI, Londra 2004)

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