AJANTRIK

(Pathetic Fallacy, India/1957) 
R.: Ritwik Ghatak. D.: 102'. V. bengalese. Digitale

T. int.: Pathetic Fallacy. Scen.: Ritwik Ghatak. F.: Dinen Gupta. M.: Ramesh Joshi. Scgf.: Robi Chattopadhyaya. Mus.: Ali Akbar Khan. Int: Kali Bannerjee (Bimal), Kajal Gupta (giovane donna), Shriman Deepak, Gyanesh Mukherjee (meccanico), Keshto  Mukherjee,  Gangapada Basu. Prod.: Promode Lahiry per L.B. Films International
DCP. D.: 102'. Bn. Versione bengalese / Bengali version
Da: National Archive of India

 

"Uno dei pochi talenti veramente originali che il cinema di questo Paese abbia prodotto": così Satyajit Ray definì il suo contemporaneo Ritwik Ghatak. Ajantrik, primo film di Ghatak uscito in sala, propone "un'integrazione emotiva con l'era della macchina" attraverso la storia di un eccentrico tassista chia- mato Bimal e una vecchia Chevrolet scassata chiamata Jagaddal. Ansante, strombettante e rantolante, la macchi- na sembra pensare con la propria testa, e anche Bimal la tratta come un essere umano. Seguendo il protagonista men- tre esercita il proprio mestiere in una cittadina del Bihar e nelle regioni della tribù degli Oraon, il film esplora gli aspetti comici e filosofici del bizzarro legame tra l'uomo e la macchina.

Libertà dai feticci
Quando Ghatak, divenuto profugo in seguito alla Partizione, concepì Ajantrik, la giovane nazione era divisa in due Stati tra loro ostili che opprimevano i loro stessi popoli ed erano destinati a isterilirsi attraverso ripetute crisi di identità.
Gli abitanti originari dell'India vivono lungo le sue foreste centrali e hanno sempre resistito a qualsiasi genere di colonizzazione. Ghatak aveva vissuto tra gli Oraon ai margini orientali di queste foreste, luogo dove fu forse perfezionato per la prima volta l'aratro. Gli abitanti dell'India centrale hanno sempre avuto a disposizione i migliori giacimenti di ferro del mondo, grazie ai quali altri popoli hanno forgiato armi e macchine che velocizzano i compiti umani con esiti spesso letali. Ma Ghatak sapeva che gli Oraon - e perfino coloro che vivevano alla periferia del loro cosmo, come lui - erano in grado di contrastare i violenti rivolgimenti della civilizzazione attraverso la compassione collettiva nata dalle strutture dell'eros. La danza, il movimento e le bandiere sventolanti sono forme che da semplici feticci individuali si sono trasformate in alankaras, figure retoriche e musica. Queste, a loro volta, possono abbandonare le astrazioni per avvicinarsi ai segni. Le rappresentazioni possono allora dar vita a creazioni artistiche o scientifiche, narrazioni al di là del tempo.
Ecco come Ritwik Ghatak giunse alla bizzarra struttura - se così può essere chiamata - di Pathetic Fallacy. Riuscite a immaginare un titolo più astratto per un film? Il termine Ajantrik amplia la parola jantrik (meccanico) per suggerire la sua antitesi. Abbiamo assistito alla fine dell'epoca che privilegiava il meccanico a scapito dell'organico. In questo film che si presta a molteplici interpretazioni, non ponendosi un obiettivo esplicito, Ghatak vuole ricostruire per noi i segni che gli Oraon e altri popoli del mondo cercavano di trovare nella loro esperienza.
Mi sembra che il movimento della danza liberi il feticcio dal suo timore ultraterreno, rendendoci nello stesso tempo estatici e lucidi. La freschezza tribale che pervade il film ci offre una promessa di libertà primordiale dalle abitudini che ci siamo cucite addosso. Il magico non può mai essere ridotto a una narrazione lineare con un inizio, una parte centrale e una fine. È 'episodico', iterativo, si muove in maniera curvilinea, disegna spirali che sembrano aprirsi e spingere all'espressione, contengono e liberano l'interiorità, il segreto dell'energia, del desiderio, del gioiello rubato per sempre alla sposa divina.

Kumar Shahani

 

'One of the few truly original talents in the cinema this country has produced' was how Satyajit Ray described his contemporary, Ritwik Ghatak. Ajantrik, Ghatak's first released feature, proposes 'an emotional integration with the machine age' through the story of an ecentric taxi-driver named Bimal and a battered old Chevrolet called Jagaddal. The wheezing, honking, rattling car has a mind of its own, and Bimal too treats it as a human being. As he plies his trade in small-town Bihar and the regions of the Oraon tribe, the film explores the comical and philosophical aspects of the strange bond between man and machine.

Freedom from Fetishes
A refugee of India's Partition, Ritwik Ghatak first thought of Ajantrik when the fledgling nation had been pulled apart into warring states repressing their own varied people, impoverishing themselves through repeated crises of identity. The original inhabitants of India live along its central forests and have been truly independent of any colonization. Ghatak had lived amongst the Oraons at the eastern end of these forests, where perhaps the plough was first perfected. The inhabitants of Central India have always had access to the finest iron ore in the world, from which other people have made weapons and machines that speed up organic tasks to lethal limits.
But Ghatak knew that the Oraons - and even those who lived on the periphery of their cosmos, such as himself - could counterpoint the violent waves of civilization's upheavals through collective compassion, born of eros and its epistemes. Dance, movement and fluttering banners are forms that have grown from mere fetishes of individuals to alankaras, or figures of speech and music. They in turn can yield the abstractions to approximate signs. The notations, then, can create realizations of science and art, narrative beyond chronologies.
That is how Ritwik Ghatak arrived at the bizarre structure - if it be so called - of Pathetic Fallacy. Imagine giving a film a title as historically abstract as that! Literally, the title Ajantrik extends the word jantrik (mechanical) to suggest its antithesis. We have seen the end of the era that hegemonized the mechanical over the organic and the self-transformative. In this film of episodes that leads to mutivalent interpretations, having no end or targeted object as it were, Ghatak wants to restore to us the signs that the Oraons and others like them (spread all over the earth) sought to find in their experience.
It seems to me that the movement of dance frees the fetish from its otherworldly awe, making us both ecstatic and attentive. The fresh tribal air that wafts through the film gives us a promise of primeval freedom, from enclosing ourselves in any garb of stitched habit. The magical can never be levelled to a linear narrative with a beginning, middle and end. It is 'episodic', iterative, moves in curves and spirals that seem to open up and impel expression, contain and liberate from its grasp inner feeling, the secret of energy, desire, of ornament forever being stolen from the divine bride.

Kumar Shahani


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INDIAN NEWS REVIEW N° 721 (India/1962) D.: 8'. V. inglese 

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