Lunedì 1 luglio 201321.45
Cinema Lumière - Sala Scorsese

SZEGÉNYLEGÉNYEK

(The Round-up / I disperati di Sandor, Ungheria/1966) R.: Miklós Jancsó. D.: 87'

T. it.: I disperati di Sandor. T. int.: The Round-Up. Scen.: Gyula Hernádi. F.: Tamás Somló. M.: Zoltán Farkas. Scgf.: Tamás Banovich. Su.: Zoltán Toldy. Int.: János Görbe (János Gajdar), Zoltán Latinovits (Imre Veszelka), Tibor Molnár (Kabai), Gábor Agárdy (Torma), András Kozák (Kabai figlio), Béla Barsi (Foglár), József Madaras (Magyardolmányos), János
Koltai (Béla Varjú). Prod.: MAFILM IV. Játékfilmstúdió. Pri. pro.: 6 gennaio 1966. 35mm. D.: 87'. Bn. Versione ungherese / Hungarian version
Da: Hungarian National Digital Archive and Film Institute


Anni intorno al 1860: il governo austroungarico si appresta a sterminare quel che resta dei ribelli di Kossuth, i combattenti della libertà, gli uomini di Sandor. È il punto di partenza di un gioco crudele tra gatto e topo, una lezione sulla soppressione dell'identità (e il finale del film una delle più agghiaccianti rappresentazioni della Storia che si compie). Allo spettatore non vengono forniti facili soggetti d'identificazione; la psicologia è spazzata via (pur essendo allo stesso tempo spietatamente presente) - tutto si concentra sul sistema e sulla storia, sulla burocrazia e sull'opportunismo, sulle utopie che non hanno avuto futuro. Passato o presente. È questo il cuore del cinema  ungherese  degli  anni  Sessanta. Gli eventi di I disperati di Sandor hanno luogo nel decennio che si apre con il 1860, ma, nelle parole di Jancsó, "tutti sapevano che si stava parlando degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento" - semplicemente, per rispondere a un'interrogazione proveniente da Mosca o da Berlino Est, era più facile obiettare che si trattava "di un film storico, non riferito ai nostri  tempi"... La corrispondenza tra passato e presente, d'altra parte, poggia su solide basi: prima di tutte la puszta che si estende immensa, fuori dal tempo, fino all'eternità. I disperati di Sandor fu la prima manifestazione di un 'metodo' destinato a diventare leggenda del cinema moderno. Ancora nelle parole di Jancsó: "Girare scene di dodici minuti con una cinepresa a 35mm significava mettere insieme una complessa struttura di binari; si cominciava la scena la mattina presto e si finiva che faceva buio". Un lavoro da virtuosi: "Il nostro metodo implicava un certo grado di follia, e la sua riuscita dipendeva dal fatto che tutti, attori e tecnici, fossimo amici - diversamente non sarebbe stato possibile" (un bel paradosso, dunque: camaraderie dietro le macchine da presa, e davanti la Storia, homo homini lupus). Il metodo significava un rinnovamento del montaggio, trasferito all'interno del pianosequenza - quello che Marcel Martin ha definito 'montaggio virtuale'. In questo magnifico Scope in bianco e nero, è la storia nuda e brutale che abbiamo davanti, e l'uomo intrappolato nella Storia. Scrive Michel Estève: "Spezzando il corso della narrazione lineare, contraendo la durata, le ellissi restituiscono il clima d'angoscia soffocante della prigione. I contrasti fotografici dei neri e dei bianchi, molto duri, molto freddi, sia nel décor sia nei costumi, sottolinenano la crudeltà dei boia. Nessuna partitura musicale, ma una colonna sonora di evidente realismo: il vento, la pioggia, gli zoccoli dei cavalli, le catene dei prigionieri. Tutto è uno spazioprigione che si chiude intorno ai prigionieri. Lo spazio esterno sembra dilatarsi, aprirsi nei piani d'insieme e nella profondità di campo della puszta ungherese: ma non offre in realtà che un sogno, un'illusione di libertà: lo spazio (la pianura) si spalanca solo sulla morte". Se chiediamo al cinema di dispiegare davanti ai nostri occhi visioni della Storia, i kolossal storici alla Quo Vadis? sono la risposta 'leggera', mentre I disperati di Sandor rappresenta probabilmente la risposta più profonda e coinvolgente alla nostra domanda: un momento alto nell'arte di Miklós Jancsó e nel cinema moderno, dove forma, metodo e oggetto diventano una cosa sola.

Peter von Bagh



1860s: the government of the AustroHungrian empire is about to  finish  off the last remnants of Kossuth's rebellion, the freedom fighters, the men of Sandor. This is the point of departure for a
cruel cat and mouse game and a lesson about crushing identities (the  ending  is  one of the most chilling moments of History fulfilled). The spectator is not given easy targets for identification; psychology is swept away (although at the same time it is impeccable) - so the film operates with absolute concentration on the system and History, bureaucracy and opportunism, and thus also of utopias that didn't have much of a chance. Then or now. We are at the core of the specialty of Hungarian film of the 1960s. While the events of
The Round-Up take place in the historical period of the 1860s, according to Jancsó, "everybody in the audience knew that the real story was about the  1950s  and  1960s";  it  was  simply convenient to point out to an interrogator from Moscow or East Berlin that it was "a historical film, not about our time"... There are good grounds for the sameness: the puszta that stretches almost into eternity is timeless. The Round-Up was  the first  instance  of  a  "method"  that  would become  the  legend  of  modern  cinema. In the words of the director: "Nowadays even a child can film a long scene. Not then.  We  shot  12-minute  scenes  with  a 35mm camera, we needed a complicated set of tracks; we started shooting early in the morning and shot until the day was darkening". It was virtuosic: "Our method meant  some  kind  of  madness,  and  depended of all of us, technicians and actors alike, being friends - otherwise what we  did  wouldn't  have  been possible." (This is a nice paradox: camaraderie behind cameras, homo homini lupus - History - In front of them). It meant the renewal of montage, which was now performed within the single-shot sequence  -  an  act  Marcel  Martin  has called "virtual montage". The magnificent black and white Scope image shows us plain History, and man trapped by History: film as a prison space. Michel Estève writes: "Breaking up the linear narrative, contracting duration, the ellipses impose the suffocating, agonizing climate of the prison. The contrast established by the photography, of sets and costumes alike, between the blacks and whites, very hard, very cold, emphasize the executioner's cruelty. No musical score, but self-evident realism from the sound track: wind, rain, horses' hooves, prisoners' irons. The fort's triangular court, the hallway where the first partisan who will be shot enlisted, the interrogation room, the suspects' cells - a prison-space tightens around the prisoners. Conversely the space could dilate, with wide shots and depth of field opening up the Hungarian puszta, but that view offers only a dream, an illusion of liberty: the space (the plain) opens only onto death". If a cinema spectator wants to watch History as film can reveal it, Quo Vadis? (et al.) is the light answer while The Round-Up is probably the most engrossing: a key moment in the art of Miklós Jancsó, and especially in modern cinema, when form, method and theme are totally one.

Peter von Bagh

Lingua originale con sottotitoli Lingua originale con sottotitoli
Dettagli sul luogo:
Piazzetta Pier Paolo Pasolini (ingresso via Azzo Gardino 65)

Numero posti: 144
Aria condizionata
Accesso e servizi per disabili
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