Allan Dwan, nobile primitivo
Dopo von Sternberg, Capra, Ford, Hawks e Walsh, la grande retrospettiva di questa edizione sarà dedicata ad Allan Dwan. Una lunga carriera americana, che ha inizio nel 1911 (l’epoca di Griffith e Ince) e si chiude nel 1961 con quattrocento film (ma alcune fonti ne citano oltre millequattrocento!) che spaziano tra tutti i generi e le innovazioni tecniche. La rassegna presenta alcune delle primissime e più rare pellicole (finalmente restaurate), i successi anni Venti costruiti intorno a Douglas Fairbanks (The Iron Mask) o Gloria Swanson (Manhandled), titoli degli anni Trenta e Quaranta in equilibrio tra grande spettacolo e intimismo, e uno dei migliori film antimaccartisti (Silver Lode). Da riscoprire lo straordinario ultimo film di Dwan, Most Dangerous Man Alive.
A Modern Musketeer (1917) • He Comes up Smiling (1918) • Getting Mary Married (1919) Zaza (1923) • Manhandled (1924) Strage Struck (1925) • East Side, West Side (1927) • Frozen Justice (1929) • The Iron Mask (La maschera di ferro, 1929) • While Paris Sleeps (1932) • Fifteen Maiden Lane (1936) • Up in Mabel’s Room (Nella camera di Mabel, 1944) • Rendezvous with Annie (Tutta la città ne sparla, 1946) • The Inside Story (1948) • Silver Lode (La campana ha suonato, 1954) • Tennessee’s Partner (La giungla dei temerari, 1955) • Most Dangerous Man Alive (1961)
Dopo i ritratti di Sternberg, Capra, Ford, Hawks e Walsh, rendiamo omaggio a un regista la cui carriera comincia nel 1911 – l’epoca di Griffith e Ince – e si chiude nel 1961 – l’epoca delle nouvelles vagues. In questo mezzo secolo Dwan ha realizzato almeno 400 film (ma c’è chi parla addirittura di 1400), confrontandosi con ogni genere e ogni innovazione tecnologica, maneggiati sempre con la cura che solo un poeta può garantire. I primi film sono i più rari, invisibili per generazioni e ora restaurati, con titoli a cui ben pochi cinefili potranno resistere: The Ranch Girl, Blackened Hills, The Thief’s Wife. Negli anni Venti Dwan firmò alcuni dei più brillanti star vehicles del decennio, con Douglas Fairbanks (da A Modern Musketeer, delizioso incrocio di road-movie e ispirazione dumasiana, fino all’intenso addio di The Iron Mask) e con Gloria Swanson (Zaza, Manhandled) – splendidi risultati che tenevano insieme grande spettacolo, commedia e tutto quello che c’è in mezzo.
Dwan disse qualcosa di molto bello a proposito di Fairbanks: “Non credo ci sia mai stato nessuno di maggior successo, sia finanziario che artistico, di Douglas negli anni in cui ebbe la sua casa di produzione. Ed era audace – i suoi film erano favole; era un sognatore”. Potrebbe quasi essere un autoritratto dello stesso Dwan: i suoi film, compresi tanti minori, chiamano in causa l’utopia.
I film che abbiamo scelto tra quelli degli anni Trenta (due titoli rari: When Paris Sleeps e Fifteen Maiden Lane) e Quaranta mostrano le vite della gente comune e la loro innocenza, riflesse “con un senso profondo dello spirito umano, indomito e immortale” – la bella definizione che Peter Bogdanovich usò per The Inside Story, quasi un antesignano della sit com, pur collocandosi a un livello ben più profondo di quello su cui il genere si sarebbe poi attestato. “Se c’è un tema comune alla sua intera opera, ha molto a che fare con la varietà dei suoi personaggi, con l’ottimismo, con l’umanità; ritroviamo dovunque la sua generosità e il suo humour spesso geniale”.
Presentiamo tre film dell’ultimo tratto della carriera di Dwan, che si congeda con uno dei più strabilianti e disperati finali che abbiano mai chiuso una carriera registica. The Most Dangerous Man Alive è prodotto da Benedict Bogeaus, che ebbe con Dwan una collaborazione proficua ed esemplare. Fecero dieci film insieme, dei quali Silver Lode è il più famoso: l’America onesta del cittadino Dwan si era trasformata in quegli anni in qualcosa di irriconoscibile, e lui firma un grande western per dar voce ai suoi sentimenti offesi. Un altro western, Tennessee’s Partner, dovrebbe figurare nella lista dei migliori di questo aureo decennio: è il più semplice di tutti, quello che più fedelmente restituisce l’etica eterna del genere e il suo nobile stile originario. “Soprattutto, era un grande narratore: anche quando i personaggi sono un poco usurati, anche quando la storia è già stata raccontata dozzine di volte, anche quando conosciamo fin troppo bene i set e gli intrecci". Sono parole del critico francese Jean-Claude Biette, che ha definito Dwan “grande poeta dello spazio”, nei cui ultimi film – ma perché non anche nei primi? – “troviamo una costante celebrazione dello spazio”.
Peter von Bagh
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