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Nino!

4 agosto 2014

Dieci anni senza Nino Manfredi. Uno degli attori più amati del cinema italiano se ne andava il 4 giugno del 2004, e, per ricordarlo, la moglie Erminia ha promosso una serie di iniziative, realizzate da Dalia Events e Onni, raccolte sotto un solo, semplice titolo: Nino!

Anche la Cineteca di Bologna è coinvolta nell’omaggio a Nino Manfredi e da domani, martedì 5 agosto, presenterà cinque serate in Piazza Maggiore (con inizio alle ore 21.45) nel cartellone di Sotto le stelle del cinema.

Primo appuntamento allora martedì 5 agosto con La ballata del boia, diretto da Luis García Berlanga nel 1963, preceduto dall’episodio L’avventura di un soldato, prima regia di Nino Manfredi, inserita nel film collettivo del 1962, L’amore difficile.

Troviamo la firma irresistibile di Dino Risi mercoledì 6 agosto, autore nel 1968 di Straziami ma di baci saziami, quella che lo stesso regista ha definito, “una storia d’amore vissuta da due poverini, con un tipo di comicità diversa dal solito, più filtrata, meno evidente, meno volgare. Lo straordinario di questo film era che si poteva leggere in due modi diversi, infatti il pubblico sofisticato si divertiva alla deformazione consapevole che noi avevamo fatto; il pubblico semplice invece prendeva la storia per buona, si commuoveva e piangeva”.

Giovedì 7 agosto ci sarà invece il restauro (promosso da Cineteca di Bologna, CSC-Cineteca Nazionale e Lucky Red in collaborazione con Paramount Pictures Corporation, Vivendi S.A. e famiglia Manfredi) di un film tra i più belli, e ora riscoperto, tra quelli interpretati da Nino Manfredi: Pane e cioccolata, diretto nel 1973 da Franco Brusati, racconto straziante eppure capace di grande comicità di un emigrante italiano in cerca di fortuna in una Svizzera che non lo vuole.

Uno dei grandi classici del cinema italiano è in programma venerdì 8 agosto: C’eravamo tanto amati di Ettore Scola (1974).

A chiudere il ciclo dedicato a Nino Manfredi, il suo primo lungometraggio da regista, diretto nel 1970: Per grazia ricevuta.



Sotto le stelle del cinema – Nino!


Martedì 5 agosto, ore 21.45, Piazza Maggiore
LA BALLATA DEL BOIA (Spagna-Italia/1963) di Luis García Berlanga (95’)

Già all’epoca e ancora oggi il più perfetto e maturo dei film di Luis García Berlanga, in Spagna La ballata del boia ebbe strenui difensori e acerrimi nemici per ragioni più politiche che cinematografiche. All’estero, nonostante la coproduzione italiana, il film non venne capito e “Positif” lo accusò addirittura di essere franchista e favorevole alla pena di morte, ovvero l’esatto contrario di ciò che palesemente era. In La ballata del boia, insieme a un sensibile ‘annerimento’ del suo umorismo e a una crescente misantropia, Azcona garantì a Berlanga un rigore strutturale e una concezione dello spazio cinematografico privi di precedenti nella sua filmografia. Non è che Azcona abbia fatto scoprire a Berlanga il piano-sequenza (senza dubbio il regista doveva aver visto i film di Welles), ma lo ha incoraggiato a servirsene, e con risultati magnifici. Il soggetto di La ballata del boia possiede la logica schiacciante e fatale di un sillogismo e porta tutte le premesse fino alle loro estreme conseguenze: ogni scappatoia si trasforma in una nuova trappola, dalla quale alla fine non vi è più alcuna via di scampo. Il film inizia come commedia di costume dai toni un poco macabri, si trasforma in assurdo incubo del reale e termina in muta tragedia dell’irreversibile. Questa terribile parabola sui rischi del non saper dire ‘no’, continuando a fare piccole concessioni e sperando nella fortuna, costituisce anche un ritratto durissimo della Spagna progressista. Nonostante la censura sia intervenuta sulla sceneggiatura e abbia imposto ulteriori tagli dopo la première veneziana, è sorprendente ciò che Berlanga riesce a mostrare dietro l’involucro umoristico del film: anche per questo La ballata del boia rimane un’opera assolutamente viva, molto più di altri film coevi che dietro le ambizioni di denuncia, il carattere realista e il tono solenne tradivano una visione più limitata e meno audace. La ballata del boia è attuale come lo era quarant’anni fa, nonostante tutti i cambiamenti intervenuti nel frattempo: la sua analisi è ancora efficace e alcune caratteristiche tipiche della società spagnola sono rimaste identiche a quelle descritte da Berlanga. Ogni volta che il film passa in televisione, continua a inquietare, a commuovere e nello stesso tempo a far sorridere quanti hanno imparato a essere scettici rispetto a molti dei progressi degli ultimi decenni.

Miguel Marías

precede
L’AVVENTURA DI UN SOLDATO (episodio di L’amore difficile, Italia/1962) di Nino Manfredi (26’)

Il film è nato da un’idea del produttore Piazzi, che voleva far esordire come registi quattro attori scelti tra quelli che avevano dimostrato un maggior interesse per la regia. Mi diedero da leggere i racconti di Calvino e mi soffermai su L’avventura di un soldato, dove capii che c’era un’idea con cui potevo confrontarmi: inconsciamente la molla dell’interesse mi scattò dentro anche perché io stesso avevo vissuto una esperienza in certo modo simile quand’ero giovane, durante una gita estiva a Ostia. Mi decisi allora per questo racconto; e dato che i miei padreterni erano stati Chaplin e Buster Keaton, mi dissi che se volevo dimostrare a me stesso di aver capito il cinema, dovevo rifarmi al cinema muto, alla nascita del cinema. Misi solo le battute degli altri viaggiatori e i rumori: sentii che era importante l’ansimare della locomotiva, il rumore del treno, che mi doveva rappresentare il battito del cuore del soldatino, il suo stato d’animo.

Nino Manfredi


Mercoledì 6 agosto, ore 21.45, Piazza Maggiore
STRAZIAMI MA DI BACI SAZIAMI (Italia/1968) di Dino Risi (100’)

La commedia riprende quota. È un film cui gli autori, Risi con Age e Furio Scarpelli, non solo sono affezionati ma di cui vanno anche e giustamente fieri. Ancora oggi, a distanza di tanto tempo, se ricordi loro qualcuna delle tante felici battute ne ridono di cuore compiaciuti. La commedia si risolleva anche perché, dopo la battuta d’arresto dell’immediato dopo-boom, quella del film è un’operazione culturale raffinata, sofisticata, senza rinunciare, con i suoi possibili e diversi livelli di lettura, ad accostare (come riuscì a fare) il pubblico più largo e meno esigente. La prova? Dopo molto tempo, questa è una commedia che si fa citare, di cui si ricordano le battute, le cui trovate lessicali entrano nel linguaggio comune. L’operazione, tipica del gusto e delle imprese più riuscite tra le tante firmate e non solo per Risi da Age e Scarpelli, combina il piacere della deformazione parodistica con l’invenzione di una lingua che, come già avvenuto con particolare brillantezza per L’armata Brancaleone, risulta da un fantasioso innesto tra dialetti del centro-sud d’Italia, una specie di ciociaro-marchigiano coniato dai due instancabili giocolieri. La parodia comprende materiali alti e bassi: da I promessi sposi a Il dottor Zivago passando per la letteratura di consumo popolare, il fumetto, cioè il fotoromanzo, e la sua traduzione cinematografica nel polpettone popolaresco degli anni Cinquanta di cui fu maestro Matarazzo, ma soprattutto al centro del bersaglio sta la lirica enfatica e semplicistica dei testi da canzonetta. Il florilegio delle battute sarebbe infinito, le risorse sovrabbondanti; basti ricordare: “tornerò ricco e spietato come il conte di Montecristo”, oppure “se tu sei il colosso di Rodi io non so’ il nanetto di Biancaneve!”. L’abilità, e il rilancio di quello squisito cinismo che è evidentemente dotato di virtù creative, è quella di rivolgersi a un pubblico avvertito che coglie le intenzioni consapevolmente canzonatorie e sarcastiche verso il sentimentalismo da bancarella e la riduzione a fumetto operata dal dilagare della cultura di massa (l’odiata televisione!); ma contemporaneamente anche allo spettatore meno complicato, cui si offre la possibilità di prendere gli ‘strazi’ (dai versi di una celeberrima canzone di tanti anni fa) di Balestrini Marino e di Di Giovanni Marisa, come dire, ‘per dritto’.

Paolo D’Agostini

Trovai questa volta, come sempre con Age e Scarpelli, una sceneggiatura perfetta, bellissima. Anche Risi credeva molto in questo film. Ho potuto dare molto di me stesso perché ritirai fuori, in un certo senso, un umorismo di stampo paesano. Poi c’era questo ambiente delle canzonette, che mi piaceva molto e che conoscevo bene. Fui anche una specie di consulente. Il film ottenne un grande successo di pubblico, e inaugurò un genere, ispirò delle imitazioni come Romazo popolare di Mario Monicelli e Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca di Ettore Scola.

Nino Manfredi

Il film è nato da una mia vecchia idea di fare un film sugli sciocchi cioè sul grande amore degli stupidi, di quelli che vivono citando i versi, non di Leopardi, ma di Mogol e Pallavicini, i grandi parolieri delle canzonette italiane. Il film era disegnato molto bene, con un finale straordinario C’era anche la parodia del Dottor Zivago, della scena della slitta. Bello era anche il suicidio dei due innamorati quando vogliono morire sui binari della ferrovia. Era una storia d’amore vissuta da due poverini. Era un tipo di comicità diversa dal solito, più filtrata, meno evidente, meno volgare. Lo straordinario di questo film era che si poteva leggere in due modi diversi, infatti il pubblico sofisticato si divertiva alla deformazione consapevole che noi avevamo fatto; il pubblico semplice invece prendeva la storia per buona, si commuoveva e piangeva.

Dino Risi


Giovedì 7 agosto, ore 21.45, Piazza Maggiore

PANE E CIOCCOLATA (Ita/1973) di Franco Brusati (110’)

Si tratta di un incontro, probabilmente irripetibile, tra un regista raffinato, lirico e crudele, ancora in cerca di una rivelazione completa, e un attore come Manfredi, che ha sommato tante e tante rivelazioni complete da accettare ormai parti ardue, scabrose, impossibili. La perfezione, la dose maggiore di perfezione, la correzione continua del concetto di perfezione che Manfredi con così caparbia, fervida, addirittura ossessiva applicazione persegue, non può non essere scomoda a chi gli si trovi a lavorare accanto. Non credo proprio di esagerare nell’assicurare che Manfredi in Pane e cioccolata è all’altezza di Chaplin in Tempi moderni. Un Chaplin che si concede meno illusioni, perché italiano e conosce da generazioni e generazioni l’andamento della Storia. Un italiano è un italiano, è un italiano, è un italiano.

Oreste del Buono

Franco Brusati in Pane e cioccolata affronta, come si dice in gergo giornalistico corrente, il problema dell’emigrante italiano. Come mai questo problema in un secolo non ha fatto un passo verso la soluzione? Certo in parte perché la società italiana in complesso non è cambiata granché; ma in parte, pure, perché il senso di inferiorità dell’emigrante italiano ha origini non soltanto economico-sociali ma anche e soprattutto culturali in senso lato (cultura contadina di contro a cultura industriale), razziali (le razze non esistono ma la versione razziale del mondo razzista, sì) e, alla fine, estetiche. Questo, crediamo, ha voluto dire o non ha potuto fare a meno di dire Brusati con la sua storia di Nino Garofoli cameriere, onesto lavoratore ma oppresso da un acuto, ossessivo senso di inferiorità, del resto confermato dal disprezzo che gli dimostrano gli abitanti del paese che lo ospita. Questo senso di inferiorità porterà Garofoli a ossigenarsi i capelli e a parlare tedesco per nascondere a se stesso e agli altri la sua origine mediterranea; e, alla fine, a restare in Svizzera nonostante il disprezzo degli svizzeri e la nostalgia dell’Italia. In realtà il film è una specie di match nullo fra Brusati e Manfredi. Nella prima parte, prevale Manfredi e abbiamo una commedia all’italiana con non poche citazioni chapliniane. Nella seconda Brusati, e abbiamo un film d’autore, di tipo espressionistico, aberrante e stravagante come un incubo o come un’opera d’arte.

Alberto Moravia

È stato un bellissimo film, al quale ho collaborato anche come sceneggiatore. Mi sono un po’ riconosciuto in questo personaggio italiano emigrato in Svizzera. Vengo infatti da una famiglia di emigrati. Mia madre ha trascorso l’infanzia in America, mio nonno vi ha vissuto venti-venticinque anni. Conosco quindi gli inconvenienti dell’emigrazione, il fatto di sradicare un uomo dalla sua terra e di portarlo altrove. Non gli resta più niente. Mio nonno era completamente distrutto, parlava solo con Dio e l’accusava di tutti i suoi malanni. Con Brusati ho cercato quindi di allargare il discorso alla condizione dell’uomo di oggi che non ha più patria, né terra. È la condizione di molti di noi, di molti italiani.

Nino Manfredi


Venerdì 8 agosto, ore 21.45, Piazza Maggiore
C’ERAVAMO TANTO AMATI (Italia/1974) di Ettore Scola (125’)

C’eravamo tanto amati è dedicato alla memoria di Vittorio De Sica. Egli, scomparso mentre il film era in fase di missaggio, aveva fatto comunque in tempo a vederne una copia lavoro. Nel film il cineasta appare in un documento realizzato da Ettore Scola in occasione di una manifestazione organizzata dal quotidiano “Paese Sera”; in queste immagini De Sica spiega a un gruppo di bambini come era riuscito a far piangere Enzo Stajola, il piccolo interprete di Ladri di biciclette. Il film è dominato da una sorta di pessimismo ricollegabile alla sconfitta di una generazione ‘sfortunata’. L’Italia del dopoguerra è contrassegnata dal trionfo delle forze di destra e della Democrazia Cristiana, sostenute dal capitalismo americano: gli ideali della Resistenza si sono insabbiati nel conformismo politico e nell’egoismo individuale. La volontà di rinnovamento democratico dopo vent’anni di fascismo sfocia nella rinuncia. In un modo o nell’altro, i tre protagonisti del film rappresentano i diversi aspetti di una sconfitta masochista. Nicola è un intellettuale rinchiuso nel proprio egocentrismo, non diventerà mai un grande critico cinematografico in grado di partecipare alla battaglia culturale. Gianni, vittima dell’ideologia dell’arrivismo economico, rinuncerà alle proprie scelte di gioventù per ‘imborghesirsi’ e sposerà la figlia di un imprenditore specializzato in speculazioni immobiliari. Antonio rimarrà invischiato nella mediocrità di un modesto impiego ospedaliero. Il proletario comunista e un poco velleitario è in realtà l’unico personaggio positivo del film. Quest’uomo vagamente chapliniano, sballottato dalla vita, tradito o abbandonato dagli amici e ingannato dalla donna che ama, rimane comunque in piedi con la dignità propria di chi non ha rinunciato a sperare e a lottare. Antonio incarna il vigore popolare di una società che vuole continuare a combattere nonostante la subdola disgregazione del paese dopo trent’anni di incuria politica e di corruzione generalizzata. Utilizzando il cinema come testimone e strumento rivelatore, Scola ci mostra una società che si mette a nudo davanti alle esigenze dello spettacolo. C’eravamo tanto amati costituisce quindi una delle analisi più raffinate che il cinema abbia prodotto sull’evoluzione della società italiana tra la fine della guerra e gli anni Settanta.

Jean A. Gili

Si pensava alla storia di un professore di provincia che, dopo aver partecipato alla Resistenza, rimaneva colpito da Ladri di biciclette che vedeva nel cineclub della sua città. C’era quindi un personaggio che si entusiasmava al punto da ritenere il neorealismo uno strumento di crescita sociale per l’Italia (e in realtà, almeno in parte, è stato così). Il professore abbandonava lavoro e famiglia e andava a Roma per cercare di conoscere De Sica. Il film doveva essere soltanto la storia di un lungo pedinamento che si protraeva per trent’anni: il protagonista seguiva De Sica, diventando per lui una vera ossessione. De Sica si sarebbe ritrovato sempre di fronte questo grillo parlante, questa specie di voce della coscienza che lo seguiva, lo rimproverava, lo perseguitava. Il film doveva terminare con una frase che poi è rimasta la stessa nella versione definitiva: “Noi crediamo di cambiare il mondo, invece è il mondo che cambia noi” In seguito l’idea di incentrare il film su un solo personaggio, con De Sica nella parte di se stesso, ci sembrò un poco limitata; in questo modo il film si sarebbe occupato soltanto di cinema. Pensammo quindi di allargare la visione delle cose introducendo almeno altri due personaggi emblematici, un borghese e un proletario. Ed è così che è nata l’idea definitiva di C’eravamo tanto amati.

Ettore Scola


Sabato 9 agosto, ore 21.45, Piazza Maggiore
PER GRAZIA RICEVUTA (Italia/1970) di Nino Manfredi (122’)

Nino Manfredi festeggia i suoi cinquant’anni come meglio non potrebbe: ricominciando da capo, con l’entusiasmo della prima giovinezza, e sposando la bravura dell’interprete all’intelligenza dell’autore. Il suo esordio nella regia del lungometraggio (dopo il lontano ma non dimenticato episodio L’avventura d’un soldato in L’amore difficile) va infatti salutato con schietta simpatia. Per grazia ricevuta è un segno del buon raccolto che gli attori più noti possono ottenere anche come registi quando, arrivati sulla mezza età, mettono a frutto la loro esperienza di uomini di spettacolo e la rabbia inghiottita lavorando per gli altri. Per grazia ricevuta è un film sorridente, vivace, e talvolta molto spiritoso, ma costruito su un tema tutt’altro che umoristico, anzi drammatico e angoscioso. Nientemeno che quello della fede religiosa, della difficoltà di vivere senza credere, e degli scompensi psicologici, dell’insicurezza, dei tormenti procurati nei semplici da un tipo di educazione che, per quanto si creda di aver superato, perdura nel tempo, e continua a porci rovelli. È il caso, nel film, di Benedetto, un contadinello di un villaggio del Lazio, birbante e malaccorto, che dopo aver fatto la prima comunione in circostanze avventurose esce illeso da una rovinosa caduta. È un miracolo di Sant’Eusebio, dicono i paesani, e Benedetto, votato al santo nel corso di una pubblica cerimonia, cresce persuaso di dover restare lontano dalle tentazioni del mondo Il senso di Per grazia ricevuta sta nel suggerire, raccontando la vita d’un umile, la condizione psicologica tipica dell’individuo di formazione cattolica. Cresciuto nell’idea del peccato, Benedetto a un certo punto ha saltato il fosso, ma ha soltanto trasferito nel campo opposto il suo bisogno di assoluto. Ci vorrà tempo, e poi chissà con quale vantaggio, perché l’uomo, uscendo dalla crisi, acquisti un senso tutto razionale e autonomo dell’esistenza. Questa la morale del film, ma detta con maggior grazia d’un rapido riassunto, e con un fondo di arguta perplessità in cui è racchiuso il rifiuto dell’italiano medio per le soluzioni totali e dogmatiche. Così Manfredi recupera un’ombra di scetticismo e di stupore, dati costanti del personaggio al quale ha dato vita nei film degli altri, e vi aggiunge un tocco di saturnino che conferisce una certa aria irreale a tutto il racconto. Nonostante la gravità dell’assunto, Per grazia ricevuta è divertente. Guardando agli esempi grandi, il regista porta tanti piccoli colpi di spillo che sdrammatizzano con l’ironia il tema del racconto, e intanto compensa il disuguale scavo psicologico con una costante attenzione alla fervida verità degli ambienti. Pregevole gioco d’equilibrio fra toni diversi, sinceramente proposto come luogo d’incontro di sentimenti assai diffusi, onesto esempio di semplicità stilistica, il film ha il suo maggior punto di forza nell’interpretazione d’un Nino Manfredi che ormai lontanissimo dalla macchietta del “fusse che fusse la volta bona” si rivela attore di piena maturità dando al suo personaggio un respiro assai profondo.

Giovanni Grazzini

Il bisogno di fare questo film mi nacque da domande dei miei figli a proposito della religione. Era un argomento che nessuno aveva affrontato in Italia, quello della cattiva educazione religiosa, che può arrivare a castrare un uomo. Mi sentivo uno svedese in Italia. Tanto è vero che tutti mi consigliavano di non fare questo film. Per lo stile, non ho avuto modelli. Sono stato certo condizionato dai miei maestri: non c’è dubbio che dentro ci sia tutta la mia ammirazione per Chaplin, ma anche per tutto ciò che è popolare, e il gusto per i lati buoni della commedia all’italiana. Era un discorso sull’anima, fatto in uno stile naif: ero uno senza scuola, che si inventava lo stile a seconda di quello che sentiva dentro.

Nino Manfredi

 

 

Sotto le stelle del Cinema
20 giugno – 14 agosto
Piazza Maggiore

Sotto le stelle del Cinema è promosso dalla Cineteca di Bologna nell’ambito di bè bolognaestate 2014


Ufficio stampa Cineteca di Bologna
Andrea Ravagnan
(+39) 0512194833
(+39) 3358300839
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