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Quattro Lubitsch in Piazza Maggiore

12 luglio 2013

Caso dell’anno, grazie al successo in sala del suo To Be or Not to Be – Vogliamo vivere (1942), Ernst Lubitsch è curiosamente un nome di nuovo in auge in questo 2013.
La Cineteca di Bologna ha scelto quattro film del maestro della commedia americana per il cartellone estivo di Sotto le stelle del Cinema, sempre alle ore 22 in Piazza Maggiore, sempre nell’impareggiabile versione originale inglese, con sottotitoli italiani: primo appuntamento domani, sabato 13 luglio, con Trouble in Paradise – Mancia competente (1932); domenica 14 luglio, Design for Living – Partita a quattro (1933); lunedì 15 luglio, la divina Greta Garbo in Ninotchka (1939); chiude la retrospettiva James Stewart in The Shop around the Corner – Scrivimi fermo posta (1940).


Sotto le stelle del cinema
Omaggio a Ernst Lubitsch


Sabato 13 luglio, ore 22, Piazza Maggiore
MANCIA COMPETENTE (Trouble in Paradise, USA/1932) di Ernst Lubitsch (83’)
Lubitsch talks. Tra una Venezia di cartapesta e una Parigi di vertiginosi interni déco, un ladro internazionale e un’intraprendente truffatrice si borseggiano, si amano, ordiscono truffe ai danni d’una languida ricchissima madame e dei suoi maldestri corteggiatori. Mancia competente non è il primo Lubitsch sonoro; tra il 1929 e il 1932 ci sono state le commedie con musica, dal Principe consorte a Un’ora d’amore. Ma è qui che per la prima volta Lubitsch chiede alla parola tutto ciò che la parola può dare al suo lucido sguardo sul cinema e sul mondo. La parola in questione è quella di Samson Raphaelson, commediografo in riluttante trasferta hollywoodiana: è uno dei tanti, in questi anni, ma proprio il lungo sodalizio con Lubitsch (nove film, fino a Il cielo può attendere, 1943) farà di lui uno sceneggiatore leggendario. Sono parole levigate, sguscianti, alle quali dobbiamo prestare ascolto veloce e cooperativo, lasciando che poi l’eco d’ogni battuta depositi il suo brivido eccitante o la sua cenere di malinconia sulle immagini che seguiranno. La posta in gioco pare sempre un’intravvista o rimandata o già perduta promessa erotica: “Lei non sa cosa si perde”, dice il ladro d’alto bordo Herbert Marshall a madame Kay Francis, un attimo prima di andarsene; “Oh, sì, lo so” mormora lei, ed è chiaro che non sta pensando ai casti valzer che avrebbe ancora sognato una Jeannette MacDonald; “Oh no, madame, lei non lo sa”, ribatte lui con altrettanto consapevole tristezza, sfilandosi di tasca la collana di perle che le ha appena sottratto. Le parole scivolano via prima che la superficie scintillante si crepi, e la sofferenza affiori. E così accade che questa commedia del piacere negato sia sostenuta da un sottotesto ritmico di meravigliosa resa comica […]. Con il suo sapore d’aforisma wildiano (l’importanza di chiamarsi Ernst...?) sciolto nella fluidità del dialogo, Mancia competente fonda il canone alto della commedia sofisticata, che poi tanti altri replicheranno senza mai attingere né forse cercare lo stesso grado di astrazione concettuale. Il film è un tessuto di doppi sensi e di tripli giochi. Triplice anche la forma: un prologo e un epilogo, prima e dopo il paradiso, e in mezzo l’effimero, impossibile equilibrio tra sesso, sentimento e denaro a cui qualcuno, per un attimo, finge di credere. L’amore è solo un atto mancato… Ma è davvero questo che ci sta dicendo Lubitsch, il figlio del sarto ebreo, il masticatore di sigari poco curante delle buone maniere, lui che attraversava la vita “con quella goffaggine che è il passaporto di ogni uomo onesto” (Samson Raphaelson) e tuttavia nel 1932 stava diventando, era già diventato lo Stilista Supremo? Assolutamente moderno, Mancia competente non conosce retoriche crepuscolari (la felicità perduta, le rose non colte). La commedia è commedia perché, e fin dove, sa assorbire la tristezza nella regola del gioco: e la sfida ludica che splendidamente apre e chiude il film, quel beffardo borseggiarsi all’infinito di Miriam Hopkins e Herbert Marshall, sembra il solo rimedio contro ogni illusione e ogni vano affanno, l’unico approdo che il romanticismo lubitschiano possa concedersi.


Domenica 14 luglio, ore 22, Piazza Maggiore
PARTITA A QUATTRO (Design for Living, USA/1933) di Ernst Lubitsch (91’)
Partita a quattro è una commedia romantica senza matrimonio, né prospettiva matrimoniale. È una commedia romantica che si dichiara “senza sesso” (secondo il patto che i tre protagonisti stringono tra loro), ironicamente anticipando le prescrizioni del Codice Hays (la cui concreta applicazione partirà solo dal 1934): non fosse che qui, a dispetto di ogni patto d’onore o limitazione censoria, di sesso ce n’è moltissimo, di sesso si parla continuamente e per la nostra eroina bohémienne il sesso si può fare, in tempi alterni, con due uomini diversi e senza sensi di colpa. […] Alla base c’è una commedia di Noel Coward, di spregiudicatezza più seriosa rispetto a ciò che sarà il film (il diritto al ménage à trois, come l’autonomia d’ogni morale, nella pièce venivano esplicitamente teorizzati). La sceneggiatura viene firmata da Ben Hecht, che salva una sola riga del dialogo cowardiano, e riscritta insieme a Lubitsch intorno ai tre attori, con particolare gusto per le audacie controllate di Miriam Hopkins - sempre così pronta a lasciarsi cadere su un letto non appena ne vede uno, mentre i due uomini le stanno accanto, in piedi e indecisi a tutto. Si ride molto in Partita a quattro, e l’immagine di tre innamorati, una donna tra due uomini, che ridono (ridono e basta) su un grande letto ne è diventata l’immagine simbolica. Ma pur così piena di risate, è certo una delle commedie anni Trenta in cui più avvertibile diventa, per ciascuno a suo tempo, la sofferenza dei personaggi coinvolti; e il marito ricco e gabbato, crudelmente escluso dai giochi, di Edward Everett Horton mostra come anche gli uomini ridicoli conoscano la tragedia (questo grandissimo, irrinunciabile ‘secondo attore’ lubitschiano trova qui il ruolo d’una vita, quello che meglio ha reso giustizia alla ricchezza del suo talento). Come già in Mancia competente (e prima nel Ventaglio di Lady Windermere), alla fine ci si ritrova in un taxi. I tre amici/amanti sono di nuovo insieme, e si lasciano alle spalle una enclave di ricchi assai funerea e volgare. Che sollievo tornare alla giovinezza dello spirito, alla loro ardita scommessa, alla loro Parigi perduta. Niente sesso, ripatteggiano i tre come all’inizio; però sappiamo che quella scommessa è già stata giocata e persa, sesso ci sarà ancora, e dunque ombre di gelosia, crepe, tradimenti. Senza eccedere i limiti della commedia, Lubitsch ci consegna un lieto fine poco rassicurante, e piuttosto lontano dall’euforia romantica che di lì a pochi anni sapranno comunicare certi finali di La Cava, o di Hawks, o di Cukor. I personaggi di Partita a quattro vivono un’avventura che, sia pure senza prescritto esito tragico, non è poi molto diversa da quella di Jules e Jim: “Abbiamo giocato con le sorgenti della vita e abbiamo perso”, dovrebbero forse riconoscere anche loro, trasgressori della regola sociale, sperimentatori di un nuovo progetto di vita, o design for living: l’immoralità è uno stato di natura, ma non per questo è un Eden.


Lunedì 15 luglio, ore 22, Piazza Maggiore
NINOTCHKA (USA/1939) di Ernst Lubitsch (110’)
Ninotchka è uno dei pochi film di Lubitsch che nascano da un’idea non sua: lo spunto è di Melchior Lengyel, commediografo ungherese a libro paga MGM; è la stessa Garbo a pretendere Lubitsch, il quale, a sua volta, pretende di scegliere gli sceneggiatori, ovvero la coppia Charles Brackett-Billy Wilder già sperimentata nell’Ottava moglie di Barbablù, e il sodale viennese Walter Reisch. Il risultato è un film che ci introduce con agio squisito al consueto mondo parigino di maîtres d’hotel, camerieri e maggiordomi, a quella lubitschiana aristocrazia della servitù che trova qui incarnazioni letterali: il capocameriere dell’albergo Clarence è in realtà un conte russo, già in fuga dalla rivoluzione, e alla ‘famiglia’ in fondo appartengono anche gli ispettori Bulianoff, Iranoff e Kopalski (non a caso finiranno con l’aprire un ristorante a Costantinopoli): esemplare la scena della loro rapida conversione ai piaceri del vivere occidentale, solo intuita dietro una porta chiusa, da cui arrivano grida d’esultanza e da cui entrano ed escono bottiglie di champagne e cameriere dalla gonna corta. Ma l’arrivo della compagna Nina Yakusciova fa ripartire tutto da capo. Greta Garbo è irriducibile: volto di neve, bocca senza sorriso. È nel suo ambiente: Bill Daniels la fotografa, Adrian la veste, Cedric Gibbons arreda le sue stanze. Per metà del film, Garbo conduce Lubitsch a farla essere ciò che è sempre stata: una donna che arde d’esaltazione amorosa, e stavolta l’oggetto di passione è l’edificazione socialista. Nella sua piatta osservazione dell’Occidente, nel suo grado zero dell’interpretazione, Ninotchka ha un candore voltairano e una purezza francescana (ciò che più la intenerisce, è il cielo azzurro di Parigi e le sue rondini)[…]. Poi, come si sa, Garbo laughs!, risata formidabile per potere pubblicitario, perfetta per messinscena comica. Una risata carica però di presagi: perché Garbo poté esplodere, frangersi, accasciarsi in una mimica allegra e convulsa, ma il suono proprio non le veniva, e la questione fu risolta solo al montaggio, con la voce di un’altra. L’aprirsi di Ninotchka al dolce delirio dell’amore e dello champagne è fatto di vignette argute (il Lenin austero della fotografia d’improvviso sorride, come il gatto d’una striscia comica) e perverse delizie (Ninotchka ubriaca, al muro le spalle orlate di chiffon, cade fucilata dal saltare di un tappo). Eppure si avverte un disturbo di fondo, un remoto disagio. L’approdo alla commedia è per Garbo l’inizio della fine (quanto le donano, più dell’organza e dei cappellini déco, i cappotti accollati, le austere camicie, la trasognata mestizia della mise sovietica...). Seguirà un solo film sfortunato, Non tradirmi con me, e di qui un’uscita di scena tribolata e dolorosa, piena di ripensamenti e false speranze. Resta il fatto che questo s’è rivelato nel tempo il suo film più resistente e popolare, e di Greta Garbo rimane oggi più Ninotchka di quanto rimangano Anna Karenina, Margherita Gauthier o la regina Cristina. E resterà per sempre, nell’olimpo delle battute memorabili, quel suo languido, alcolico chiedere tempo al fuoco dell’ideologia: “Compagni! La rivoluzione è in marcia, le bombe cadranno, la civiltà crollerà a pezzi. Ma per favore, non adesso...”.


Martedì 16 luglio, ore 22, Piazza Maggiore
SCRIVIMI FERMO POSTA (The Shop around the Corner, USA/1940) di Ernst Lubitsch (99’)
All’uscita di Scrivimi fermo posta, pochi mesi dopo il buon successo di Ninotchka, Lubitsch parlava del nuovo film diretto (e scritto insieme a Samson Raphaelson) per la MGM quasi con imbarazzo: “Una piccola cosa, di poco costo, forse di qualche fascino”. Abbandonata l’astrazione del teatro dei ricchi, raccontava per la prima volta una storia comune di gente comune: e pur perimetrando il set con un filo d’ironia, si disponeva a trattare con assoluta serietà e inedito affetto i sentimenti che trovano asilo nel negozio d’articoli in pelle del signor Matuschek. La cura con cui questo mondo è riempito di oggetti già comunica una nuova temperatura emotiva; Cedric Gibbons, maestro nell’arredare spazi lussuosi, qui lavora un’iconografia di vecchia bottega, il calore del legno, il profumo del cuoio, lo scricchiolio sordo di scaffali stagionati, il senso del lavoro ben fatto di valigie, borse e scatole allineate per taglia e modello. L’attenzione al fattore umano ha la stessa energia discreta e amorevole. Il commesso Felix Brassart è l’uomo più mite e pavido del mondo, ma porta con gravità l’impegno d’una faccia alla Groucho Marx; Matuschek, corpulento commerciante anziano, è anche un uomo che soffre per amore, come nessun personaggio lubitschiano ha mai sofferto, fino al tentato (fuori campo) e sventato suicidio: “Semplicemente, non voleva invecchiare insieme a me” dice della moglie fedifraga, e sulle sue parole s’allungano ombre che riguardano, in modi diversi, le vite di tutti. Scrivimi fermo posta ci parla di un mondo che non ignora l’umiliazione, l’ambizione frustrata, lo spettro della disoccupazione, e che supera le paure confermandosi in un’artificiale, ma funzionante, fantasia familiare. Questo mondo a parte è anche l’ultimo riparo da un altro mondo plumbeo (è il 1940, e Lubitsch non ignora i rintocchi di morte che arrivano dall’Europa); ed è l’utopia di un capitalismo paterno e moderato, che unisce esperienza americana e memorie delle “bottegucce berlinesi” dove, ricorda Guido Fink, s’era fatto le ossa lo spavaldo Meyer, primo personaggio comico del Lubitsch tedesco. Più di sempre, l’artificio si fa strumento dell’autentico: questo angolo di Budapest di cartapesta hollywoodiana è probabilmente il più sincero dei luoghi lubitschiani. Al centro di un piccolo mondo vero e falso, l’amore tra l’impiegata Sullavan e l’impiegato Stewart esplora fino in fondo la croce e la delizia dell’equivoco. […] Come ogni altra coppia di commedia fanno procedere l’attrazione per via di conflitto, e si pungono lungo tutto il film. Sono anche piuttosto rigidi e impacciati; per loro i corpi mentono, mentre la lettera dice la verità: le lettere che si scambiano fermo posta, ignorando l’una l’identità dell’altro, sono un campionario di romanticismo nonsense e di maldestro plagio, ma la desolazione d’una mano che cerca nella casella una risposta che non c’è garantisce la verità di quest’amore. Margaret Sullavan, scoperta l’identità tra il commesso Stewart e il ‘caro amico’ epistolare, vuole però controllare, prima del bacio finale, che la fama sulle sue gambe storte sia infondata: amore estatico e pragmatico, l’amore come va tra gli uomini e le donne.

Schede di Paola Cristalli dal volume Commedia americana in cento film (Le Mani, 2007)

 


Sotto le stelle del Cinema
21 giugno – 30 luglio
Piazza Maggiore

Sotto le stelle del Cinema fa parte di Bè – Bologna Estate 2013

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