PAPER MOON - LUNA DI CARTA
(USA/1973) di Peter Bogdanovich (102')
Regia: Peter Bogdanovich. Soggetto: dal romanzo Addie Pray di Joe David Brown. Sceneggiatura: Alvin Sargent. Fotografia: László Kovács. Montaggio: Verna Fields. Scenografia: Polly Platt. Interpreti: Ryan O'Neal (Moses Pray), Tatum O'Neal (Addie Loggins), Madeline Kahn (Trixie Delight), John Hillerman (Jess Hardin), P.J. Johnson (Imogene), Jessie Lee Fulton (Miss Ollie), Noble Willingham (Mr. Robertson), Burton Gilliam (Floyd). Produzione: Peter Bogdanovich per The Directors Company, Saticoy Productions. Durata: 102'
Versione originale con sottotitoli italiani
Il più strutturato e incantevole omaggio di Bogdanovich al cinema classico. Un bianco e nero d'artista (László Kovács) ci risucchia nel tempo perduto dell'America anni Trenta, la Depressione, le strade di campagna vuote e polverose, case isolate e piccole città, Shirley Temple al cinema e il giovane Bing Crosby alla radio. È un road-movie, una Model T percorre il paese: a bordo un bell'imbroglione che si finge venditore di bibbie e 'una bambina', sua sodale negli imbrogli: dai tempi del Monello non s'era vista una così portentosa coppia (non mancano però le tensioni edipiche). "Cinema tra virgolette", come argutamente lo definisce Guido Fink, dolcezza e tristezza: "Nel vuoto spettrale di quest'America da quadro di Hopper, non c'è autorità dalla quale si possa invocare protezione o perdono: ci sono solo altri esseri solitari da frodare".
(Paola Cristalli)
Bogdanovich impiega tutte le risorse della sua conoscenza del mezzo cinematografico, dalla fotografia (ancora in bianco e nero) allo stesso uso operativo delle citazioni e delle reminiscenze, per una sua precisa metafora dell'America. Se infatti Paper Moon può anche essere semplicemente inteso come una sorta di studio sull'infanzia (e, diciamo, sul crollo di un suo mito edenico [...]), non è d'altro canto difficile leggervi un discorso critico personale su altre metafore americane. L'infanzia di Paper Moon è l'infanzia eterna di una nazione osservata su uno sfondo significativamente solitario e desolato; Paper Moon è l'altra faccia del classico lazzo di frontiera visto nella sua troppo spesso taciuta miseria originale; è lo smascheramento del 'simpatico' mito nazionale del picaro che, pur non rinunciando alla sua classica e reale componente comica, ne mostra finalmente anche il volto tragico e senza speranza [...]. Apparentemente versione comica, primaverile di un Gangster Story, Paper Moon è invece il film dell'angoscia americana (e si ricordi l'eloquente sequenza dell'inseguimento nelle strade desolate della città deserta, forse lontana reminiscenza di un altro, e questa volta diretto, incubo americano, il Mickey One, 1965, di Penn), dell'impossibilità per il reietto di non essere altri che se stesso. Non è solo l'America della grande crisi quella di Bogdanovich, ma anche e soprattutto la nostra, fissata in una stasi mistica e triste nella quale la ricerca del padre non garantisce affatto il ritrovamento della propria dimensione sociale se non al di fuori della società, nella perpetuazione della propria situazione di alienati, e nella quale lo stesso piano esistenziale non ne esce intatto, ma alterato e condizionato (e si vede al proposito la bella, freudiana sequenza del ritorno notturno di Mosey e di Addie davanti allo specchio).
In Paper Moon quindi il passato è solo - o è anche - una metafora del presente, la cui precisione scenografica di un'America rurale e provinciale è soltanto la spia di un assetto sociologico tutto esteriore nel quale, però, allo stesso modo che nel futuro, non c'è spazio sociale per gli umiliati, i solitari, gli offesi.
(Franco La Polla)
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