VIVERE
(Giappone/1952) di Akira Kurosawa (143')
Regia: Akira Kurosawa. Sceneggiatura: Akira Kurosawa, Shinobu Hashimoto, Hideo Oguni. Fotografia: Asakazu Nakai. Montaggio: Koichi Iwashita. Scenografia: Takashi Matsuyama. Musica: Fumio Hayasaka. Interpreti: Takashi Shimura (Kanji Watanabe), Nobuo Kaneko (Mitsuo), Kyoko Seki (Kazue), Makoto Kobori (Kiichi), Shinichi Himori (Kimura), Haruo Tanaka (Sakai), Miki Odagiri (Toyo Odagiri), Bokuzen Hidari (O-hara), Minosuke Yamada (Saito), Kamatari Fujiwara (Ono). Produzione: Sojiro Motoki per Toho Company. Durata: 143'
Versione originale con sottotitoli italiani e inglesi
Copia proveniente da BFI
Avventura interiore di un uomo comune che lotta contro la morte e il fallimento della propria esistenza, ritratto sarcastico di una categoria sociale (la burocrazia), Vivere ci sorprende per la varietà e la profondità dei temi affrontati, l'audacia della struttura narrativa, la sconvolgente carica emotiva che lo collocano accanto ai film-bilancio più celebrati della storia del cinema (L'ultima risata, Quarto potere, Umberto D., Il posto delle fragole). Lirismo e satira, grazia e crudeltà (la visita medica, la via crucis burocratica di Watanabe), realismo, onirismo (i flashback) ed espressionismo (il viaggio notturno nei quartieri di piacere di Tokyo) si fondono in una sintesi prodigiosa. Uno dei miracoli di questo ‘Citizen Watanabe' è che riesce a trattare della malattia senza deprimerci, comunicandoci una forsennata voglia di vivere.
Nel voler fondere in un solo grande film le istanze di opere disparate come Quarto potere (l'ultimo terzo di Vivere è l'indagine sulla reale identità di uno scomparso), Umberto D., e Il cappotto di Gogol', l'autore ha peccato per troppa ambizione? Anche se c'è forse qualche scompenso, in Vivere tutto viene riscattato dall'emozione, dall'umanità delle situazioni e dei personaggi: con la sua sensibilità, la sua fisicità (le spalle ricurve, gli occhioni da cane bastonato, le grandi labbra ‘scimmiesche'), Takashi Shimura conferisce al personaggio del capoufficio una intensità ‘chapliniana'; come a Emil Jannings (L'ultima risata), gli perdoniamo volentieri qualche eccesso melodrammatico. Comprendiamo e condividiamo pienamente l'entusiasmo di André Bazin: "Vivere è forse il più bello, il più intelligente (la sua sapienza strutturale mi lascia a bocca aperta) e il più emozionante fra i film giapponesi che ho potuto vedere" scriveva nel 1957. E aggiungeva: "Forse continuo a preferire la pura musica giapponese dell'ispirazione di Mizoguchi, ma debbo arrendermi davanti all'ampiezza delle prospettive intellettuali, morali, estetiche aperte da un film come Vivere, che mette in luce dei valori incomparabilmente più importanti sia nella sceneggiatura che nella forma. Mi domando se, invece di considerare il cosmopolitismo di Kurosawa come un compromesso sia pure di qualità superiore, non dobbiamo al contrario considerarlo come un progresso dialettico che indica l'avvenire del cinema giapponese".
(Aldo Tassone)
Il film è la ricerca di un'affermazione. Affermazione che sta nel messaggio morale del film, contenuto nel titolo: Ikiru è il verbo intransitivo che significa ‘vivere'. Questa è l'affermazione: la vita è abbastanza. Ma l'arte del semplice vivere è una delle più difficili da padroneggiare. Quando si vive, bisogna vivere pienamente - è questa la lezione appresa da Kanji Watanabe, il piccolo funzionario la cui vita e la cui morte conferiscono un senso al film.
(Donald Richie)
Tariffe:
Ingresso libero
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