BADLANDS

(La rabbia giovane, USA/1973) R.: Terrence Malick. D.: 94'

Serata promossa da Gruppo Hera

Scen .: Terrence Malick. F .: Tak Fujimoto, Steven Larner, Brian Probyn. M .: Robert Estrin. Scgf .: Jack Fisk. Mus .: George Tipton. Su .: Doug Crichton, Maury Harris, Sam Shaw. Int .: Martin Sheen (Kit), Sissy Spacek (Holly), Warren Oates (il padre di Holly), Ramon Bieri (Cato), Alan Vint (il vice-sceriffo), Gary Littlejohn (lo sceriffo), John Carter (l'uomo ricco). Prod .: Terrence Malick per Pressman-Williams, Warner Bros, Jill Jakes Production, Badlands Company. Pri. pro.: 13 ottobre 1973. DCP. D .: 94'. Model Shop Col. Versione inglese / English version.
Da: Warner Bros . per concessione di Park Circus.
Restaurato da Warner Bros . nel suo formato originale 1 .85:1. Le bande nere sopra e sotto lo schermo sono normali per questo formato . Approvata da Terrence Malick, questa nuova digitalizzazione a risoluzione 4K è tratta dal negativo camera originale 35mm
Restored by Warner Bros. in its original aspect ratio of 1.85:1. Black bars at the top and bottom of the screen are normal for this format. Approved by director Terrence Malick, this new digital transfer was created in 4K resolution from the original 35mm camera negative.


Non sarebbe esagerato definire la prima metà di Badlands una rivelazione: uno dei migliori e più colti esempi di cinema narrato americano dai tempi di Welles e Polonsky. Le composizioni, gli attori e i fili narrativi si intrecciano e si incastrano con irriducibile economia e infallibile precisione, portandoci con sé senza darci il tempo di riprendere fiato. Probabilmente non è un caso se una delle prime inquadrature di Kit nel suo giro di raccolta di rifiuti richiama la strada di quartiere che ci introduceva nella realtà sociale di Gioventù bruciata: il maledettissimo corteggiato da Kit e descritto in modo distaccato da Holly evoca immediatamente gli anni Cinquanta di Nicholas Ray e soprattutto certe opere di Godard influenzate da Ray come Pierrot le fou e Bande à part, anch'esse filtrate dal- la voce fuori campo. L'occhio di Terrence Malick, il talento narrativo e la rappresentazione di una violenza indifferente sono apertamente godardiani, ma si radicano in un contesto più facilmente identificabile con Ray. Inconfondibilmente malickiani sono invece la narrazione e il dialogo, che come la violenza del film rimane laconi- co, circoscritto, distaccato e gelidamente reale. Meno costante, purtroppo, è la sensazione di scoperta che illumina la prima parte del film: più la coppia procede nei suoi vagabondaggi, più familiare e risaputa sembra diventare la loro storia, aggrappata a osservazioni sociologiche che risultavano interessanti in Gun Crazy, Gangster Story, I killers della luna di miele, Bersagli e via dicendo, ma che nel 1974 sfiorano pericolosamente la banalità. I richiami stilistici, invece, appaiono in maniera troppo varia e repentina per rientrare in schemi prevedibili. Holly che occupa un letto con un cane enorme; la delusione della sua prima esperienza sessuale e Kit che raccoglie una pie- tra per commemorare l'evento (sostituendola con una più piccola quando si accorge che è troppo pesante); [...] Kit che legge il "National Geographic" e le riflessioni panteistiche di Holly; i poliziotti e la gente spaventata intravisti attraverso quelli che sembrano spezzoni color seppia di cinegiornale: sono tutte immagini e idee troppo straordinarie e troppo nettamente separate dai loro contesti immediati per rientrare nelle tradizionali aspettative di genere.

Jonathan Rosenbaum, "Monthly Film Bulletin", n. 491, novembre 1974

 


It
would hardly be an exaggeration to call the first half of Badlands a revelation - one of the best literate examples of narrated American cinema since the early days of Welles and Polonsky. Compositions, actors, and lines interlock and click into place with irreducible economy and unerring precision, carrying us along before we have time to catch our breaths. It is probably not accidental than an early camera set-up of Kit on his garbage route recalls the framing of a neighborhood street that introduced us to the social world of Rebel Without a Cause: the doomed romanticism courted by Kit and dispassionately recounted by Holly immediately evokes the Fifties world of Nicholas Ray - and more particularly, certain Ray-influenced (and narrated) works of Godard, like Pierrot le fou and Bande à part. Terrence Malick's eye, narrative sense, and handling of affectless violence are all recognizably Godardian, but they flourish in a context more easily identified with Ray. Unmistakably Malick's own, however, is the narration and dialogue: like the movie's violence, it remains laconic, idiomatic, detached, and chillingly real throughout. Less sustaining, alas, is the sense of discovery illuminating the film's first part: the further that the couple proceed in their travels, the more familiar and twice-told their story seems to become, grasping after sociological ob- servations that were interesting when they figured in Gun Crazy, Bonnie and Clyde, The Honeymoon Killers, Targets, et al., but are uncomfortably close to platitudes in 1974. The stylistic familiarities, on the other hand, appear too quickly and variously for them to fall into predictable patterns. Holly occupying a bed with an enormous dog; her disappointment with her first foray into sex, and Kit picking up a stone to commemorate the event (substituting a smaller one when he finds it too heavy); Kit reading "National Geographic" while Holly muses pantheistically on the soundtrack; sepia newsreel-like glimpses of police and frightened townsfolk: all these are too striking as images and as ideas, and too neatly abstracted out of their immediate contexts, to fit into traditional genre expectations.

Jonathan Rosenbaum, "Monthly Film Bulletin",n. 491, novembre 1974

 

precede
Lettere da Chris Marker
LA JETÉE (Francia/1962) R.: Chris Marker. D.: 28'

Sog., Scen., F .: Chris Marker. M .: Jean Ravel. Scgf .: Jean-Pierre Suche. Mus .: Trevor Duncan. Su .: SIMO. Int .: Jean Négroni (narratore), Hélène Chatelain, Davos Hanich, Jacques Ledoux, André Heinrich, Jacques Branchu, Pierre Joffroy, Étienne Becker, Philbert von Lifchitz, Ligia Borowczyk, Janine Klein, Bill Klein, Germano Facetti. Prod .: Anatole Dauman per Argos Films. Pri. pro.: 21 marzo 1963. DCP. D .: 28'. Bn. Versione francese con sottotitoli fiamminghi / French version with Flemish subtitles
Da: Cinémathèque Royale de Belgique per concessione di Argos Films

La Jetée si presenta subito come una meditazione sul Tempo. Meditazione coe­rente. La durata è vissuta, ma il Tempo è pensato; più di un filosofo ha voluto con­vincercene. [...] Se il Tempo è pensiero, e il pensiero logos, il linguaggio è sicu­ramente il veicolo migliore per navigare nel Tempo. Quando gira La Jetée, Chris Marker è ancora, è soprattutto un cineasta della parola. Il verbo, per lui, è primario. È il commento che dona alle sue immagi­ni la loro unità, la loro continuità, il loro dramma e il loro senso definitivo. Per que­sto film, il suo cinema trae dal linguaggio questa cosa favolosa, e così banale che la si dimentica, che può conciliare l'immagi­nario e il reale, l'impossibile e il possibi­le, il presente dell'enunciazione con tutti i deliri, tutte le vertigini dell'enunciato. [...] Il montaggio immagine/discorso di La Jetée gioca con i tempi della grammatica per giocare con il Tempo, per tentare di ritrovare il tempo dello spirito e quello del mondo. Costruisce uno strano futuro an­teriore, un futuro passato, a venire e già venuto (dato che lo si racconta). E l''inno­cenza', la 'naturalezza', la prontezza con cui il passato è ancora qui, il futuro si sco­pre già presente e già passato, fanno di noi stessi, spettatori di questa apocalisse, dei sopravvissuti. [...] La Jetée è un film composto non di inquadrature immobili, ma di fotogrammi, di fermi immagine. Nel 1963 l'esperienza non è nuova. Resnais prima, Marker poi, si inseriscono in un tradizione che parte dal 1940, e che ha nell'italiano Luciano Emmer con i suoi film sull'arte il suo prin­cipale esponente [...]. La sfida di La Jetée era di porre il cinema in contraddizione con i propri mezzi, di costringerlo a supe­rare esteticamente i propri limiti, di agire d'astuzia con i suoi codici, forzarlo a ne­garsi nella sua essenza e poi rivendicarli improvvisamente in quell'istante magico che ha fatto la gloria del film: una foto si muove! Mentre il cinema, tradizional­mente, afferma: "questo è e diventa", e mentre la fotografia dice: "Questo è sta­to", oppure: "Questo ancora è, ma cristal­lizzato in un vuoto di Tempo", il film di Marker con il suo recitativo off e la pro­vocante immobilità delle sue immagini, dice: "Questo è, sarà ed è stato" contem­poraneamente.

Barthélemy Amengual, Le Présent du fu­tur. Sur La Jetée, "Positif", n. 433, marzo

 

La Jetée is first of all a meditation on the concept of Time. A coherent medita­tion. The duration of time is something we experience, but the concept of Time is something we think about, as more than one philosopher has tried to convince us. [...] If Time is Thought and Thought is Reason, than Language is surely the best vehicle for Time travel. When he was mak­ing La Jetée, Chris Marker was still first and foremost a verbal filmmaker. Words, for him, were paramount. They provided the unifying commentary to his images, giving them continuity, drama and defini­tive meaning. In this film, it is language which provides this element which is at once fantastic and so banal as to be eas­ily overlooked that allows us to blend fan­tasy and reality, the impossible with the possible, the moment of uttering with all the dizzy deliriousness of the thing ut­tered. [...] The editing of the images and dialogues in La Jetée plays with grammar tenses to play with Time, in an attempt to locate the time of the spirit and the time of the world. It uses a strange future per­fect tense, a past future tense, to express what is to come that has already hap­pened (since someone is telling it); the 'innocence' and 'naturalness', the readi­ness with which the past is still happen­ing and the future, we discover, is already here and already finished, which means that we, the spectators of the apocalypse, are its survivors. [...] La Jetée is a film composed, not of shots of unmoving images, but of a se­ries of stills. In 1963 this was not a novel idea. Resnais, and later Marker, were find­ing their place amidst a movement - deal-ing with films about art - born in 1940, whose major proponent was the Italian filmmaker Luciano Emmer [...]. The chal­lenge of La Jetée lay in having cinema contradict itself by its own means, forcing the medium to overcome its limitations esthetically, acting cleverly, using its own codes, forcing it to negate its own es­sence only to then suddenly be vindicated in that magical moment which has made the film famous: a frame in movement! While cinema, traditionally, affirms, "this is how it is and how is to be," and photog­raphy says, "this is how it was", or "this is how it still is, but frozen in the vacuum of Time", Marker's film, with its voice-over commentary and the provocative immobil­ity of its images, states, "This is how it is, how it will be and how it was" all at once.

Barthélemy Amengual, Le Présent du futur. Sur La Jetée, "Positif", n. 433, March 1997

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