DIMANCHE À PÉKIN / LA JETÉE / LA SIXIÈME FACE DU PENTAGONE
DIMANCHE Á PÉKIN (Francia/1956) R.: Chris Marker. D.: 22’
Scen., F.: Chris Marker. M.: Francine Grubert. Mus.: Pierre Barbaud. Su.: Studios Marignan. Int.: Guilles Quéant (narratore). Prod.: Madeleine Casanova-Rodriguez per Pavox Films, Argos Films. DCP. D.: 18'. Col. Versione francese / French version
Da: Argos Films
Restaurato dal laboratorio Éclair a partire dal negativo 16mm Kodachrome e da L.E. Diapason (per il suono) / Restored by Éclair laboratories from a 16mm Kodachrome negative and L.E. Diapason (for the sound)
Credo che Chris Marker abbia dovuto tener conto delle difficoltà di distribuzione di un film di più di venti minuti. Perlomeno ha saputo trasformare questa necessità in stile, al punto che il nostro rammarico cede alla riflessione. Il soggetto era così ampio che un documentario su di esso poteva essere soltanto o lunghissimo o breve. Così com'è, Dimanche à Pékin non ci lascia insoddisfatti, ma affascinati. Come Les Statues meurent aussi, film nel quale Chris Marker ha collaborato con il suo amico Alain Resnais [...], Dimanche à Pékin mi sembra corrispondere a una concezione nuova del 'documentario'. Questa parola, in questo caso troppo banale, serve solo a indicare l'origine della materia prima visiva. [...] Il reportage che Chris Marker ci porta dalla Cina è un atto al tempo stesso di informazione, di poesia e di critica. Ma ciò che distingue questa impresa dalle altre che l'hanno preceduta con lo stesso intento sono i mezzi adottati. Di Dimanche à Pékin si può dire senza dubbio che è un film di montaggio, ma Chris Marker conferisce a questo termine generico un significato radicalmente nuovo. Il montaggio nel senso tradizionale si fonda sul supporto delle immagini e sul senso che deriva dal loro accostamento. Quale che sia la funzione del montaggio, i suoi poteri derivano dall'immagine e dalla sua metrica. È in un certo senso a due dimensioni sul piano dello schermo. Se suscita, inoltre, sentimenti o idee è per induzione, come si suol dire per una cor-rente indotta. Nei film di Chris Marker il montaggio è basato su tre elementi, le immagini, il rapporto tra di esse e quello con il commento, concepito come un'esplicitazione dell'immagine e come elemento costitutivo del film, che non potrebbe es-sere definito senza queste tre coordinate. Di Dimanche à Pékin sarebbe anche giusto dire che si tratta sia di un'opera essenzialmente letteraria sia di un'opera di natura cinematografica; ma l'una e l'altra cosa potrebbero anche essere false. Abbiamo ascoltato, certamente, altri commenti brillanti, profondi e poetici [...] ma nessuno, credo, così dialetticamente legato alle immagini. Esposte e immobilizzate in un album, quelle che ci vengono qui proposte sarebbero talvolta molto belle, talvolta di una notevole banalità, ma il testo incide sempre su di esse come l'acciaio della rotellina sulla selce per farne scaturire la scintilla.
André Bazin, 'Sur les routes de l'URSS' et 'Dimanche à Pékin', "France-Observateur", 27 giugno 1957
I think Chris Marker must have taken into consideration the inherent difficulties involved in trying to get a film distributed that only lasts just over twenty minutes. In any case, he certainly knew how to transform a necessity into a style, so much so that our own sorrow gives way to reflection. The subject matter is so vast that a documentary on it could only be either extremely long or extremely short. As it is, Dimanche à Pékin does not leave us dissatisfied, but intrigued. Like Les Statues meurent aussi, a film Chris Marker made together with his friend, Alain Resnais […], Dimanche à Pékin seems to reflect a new concept of documentary filmmaking. The term ‘documentary’ is too banal to describe this kind of film. We use it here for convenience sake to refer to the origin of the images […] The report Chris Marker brings us from China is at once a body of information, an expression of poetry and a critique. What truly distinguishes this film from predecessors produced with the same intent is the means by which it was made. Dimanche à Pékin is without a doubt a montage film, but Chris Marker imbues this generic term with radically new meaning. In a traditional sense, montage is based on what supports the images and the meaning expressed by their sequence. Whatever the function of montage editing, its power comes from the images chosen and the rhythm with which they are shown. It is in a way adding another dimension to the flatness of the screen. If it is further able to evoke feelings and ideas, it is by induction, like electro-magnetically induced current. In Chris Marker’s films, the montage process relies on three elements: the images, the relationship between the images and their relationship to the commentary, conceived as an explanation of the images and as a constitutional element of the film, which could not be defined without reference to these three components. We could also say that Dimanche à Pékin is essentially as much a literary piece of work as it is a cinematic one, although both of these assertions may also be false. We certainly have heard other brilliant, profound and poetic comments […] but none have been so dialectically linked to the images. Displayed frozen in an album, the images offered here are often very beautiful, and other times extremely banal, but the text rubs against them like the steel wheel of a lighter on the flint, producing sparks.
André Bazin, ‘Sur les routes de l’URSS’ et ‘Dimanche à Pékin’, “France-Observateur”, June 27, 1957
LA JETÉE (Francia/1962) R.: Chris Marker. D.: 28'
Sog., Scen., F.: Chris Marker. M.: Jean Ravel. Scgf.: Jean-Pierre Suche. Mus.: Trevor Duncan. Su.: SIMO. Int.: Jean Négroni (narratore), Hélène Chatelain, Davos Hanich, Jacques Ledoux, André Heinrich, Jacques Branchu, Pierre Joffroy, Étienne Becker, Philbert von Lifchitz, Ligia Borowczyk, Janine Klein, Bill Klein, Germano Facetti. Prod.: Anatole Dauman per Argos Films. Pri. pro.: 21 marzo 1963. DCP. D.: 28'. Bn. Versione francese con sottotitoli fiamminghi / French version with Flemish subtitles
Da: Cinémathèque Royale de Belgique per concessione di Argos Films
La Jetée si presenta subito come una meditazione sul Tempo. Meditazione coerente. La durata è vissuta, ma il Tempo è pensato; più di un filosofo ha voluto convincercene. [...] Se il Tempo è pensiero, e il pensiero logos, il linguaggio è sicuramente il veicolo migliore per navigare nel Tempo. Quando gira La Jetée, Chris Marker è ancora, è soprattutto un cineasta della parola. Il verbo, per lui, è primario. È il commento che dona alle sue immagini la loro unità, la loro continuità, il loro dramma e il loro senso definitivo. Per questo film, il suo cinema trae dal linguaggio questa cosa favolosa, e così banale che la si dimentica, che può conciliare l'immaginario e il reale, l'impossibile e il possibile, il presente dell'enunciazione con tutti i deliri, tutte le vertigini dell'enunciato. [...] Il montaggio immagine/discorso di La Jetée gioca con i tempi della grammatica per giocare con il Tempo, per tentare di ritrovare il tempo dello spirito e quello del mondo. Costruisce uno strano futuro anteriore, un futuro passato, a venire e già venuto (dato che lo si racconta). E l''innocenza', la 'naturalezza', la prontezza con cui il passato è ancora qui, il futuro si scopre già presente e già passato, fanno di noi stessi, spettatori di questa apocalisse, dei sopravvissuti. [...] La Jetée è un film composto non di inquadrature immobili, ma di fotogrammi, di fermi immagine. Nel 1963 l'esperienza non è nuova. Resnais prima, Marker poi, si inseriscono in un tradizione che parte dal 1940, e che ha nell'italiano Luciano Emmer con i suoi film sull'arte il suo principale esponente [...]. La sfida di La Jetée era di porre il cinema in contraddizione con i propri mezzi, di costringerlo a superare esteticamente i propri limiti, di agire d'astuzia con i suoi codici, forzarlo a negarsi nella sua essenza e poi rivendicarli improvvisamente in quell'istante magico che ha fatto la gloria del film: una foto si muove! Mentre il cinema, tradizionalmente, afferma: "questo è e diventa", e mentre la fotografia dice: "Questo è stato", oppure: "Questo ancora è, ma cristallizzato in un vuoto di Tempo", il film di Marker con il suo recitativo off e la provocante immobilità delle sue immagini, dice: "Questo è, sarà ed è stato" contemporaneamente.
Barthélemy Amengual, Le Présent du futur. Sur La Jetée, "Positif", n. 433, marzo 1997
La Jetée is first of all a meditation on the concept of Time. A coherent meditation. The duration of time is something we experience, but the concept of Time is something we think about, as more than one philosopher has tried to convince us. [...] If Time is Thought and Thought is Reason, than Language is surely the best vehicle for Time travel. When he was making La Jetée, Chris Marker was still first and foremost a verbal filmmaker. Words, for him, were paramount. They provided the unifying commentary to his images, giving them continuity, drama and definitive meaning. In this film, it is language which provides this element which is at once fantastic and so banal as to be easily overlooked that allows us to blend fantasy and reality, the impossible with the possible, the moment of uttering with all the dizzy deliriousness of the thing uttered. [...] The editing of the images and dialogues in La Jetée plays with grammar tenses to play with Time, in an attempt to locate the time of the spirit and the time of the world. It uses a strange future perfect tense, a past future tense, to express what is to come that has already happened (since someone is telling it); the 'innocence' and 'naturalness', the readiness with which the past is still happening and the future, we discover, is already here and already finished, which means that we, the spectators of the apocalypse, are its survivors. [...] La Jetée is a film composed, not of shots of unmoving images, but of a series of stills. In 1963 this was not a novel idea. Resnais, and later Marker, were finding their place amidst a movement - deal-ing with films about art - born in 1940, whose major proponent was the Italian filmmaker Luciano Emmer [...]. The challenge of La Jetée lay in having cinema contradict itself by its own means, forcing the medium to overcome its limitations esthetically, acting cleverly, using its own codes, forcing it to negate its own essence only to then suddenly be vindicated in that magical moment which has made the film famous: a frame in movement! While cinema, traditionally, affirms, "this is how it is and how is to be," and photography says, "this is how it was", or "this is how it still is, but frozen in the vacuum of Time", Marker's film, with its voice-over commentary and the provocative immobility of its images, states, "This is how it is, how it will be and how it was" all at once.
Barthélemy Amengual, Le Présent du futur. Sur La Jetée, "Positif", n. 433, March 1997
LA SIXIÈME FACE DU PENTAGONE (Francia/1968) R.: Chris Marker e François Reichenbach. D.: 25'
T. int.: The Sixth Face of the Pentagon. F.: François Reichenbach, Chris Marker, Christian Odasso, Tony Daval. M.: Carlos de los Llanos. Su.: Antoine Bonfanti. Prod.: Chris Marker, Catherine e Pierre Braunberger per SLON, France-Opéra Films, Film de la Pléiade DCP. D.: 25'. Col. Versione francese e inglese / French and English version
Da: Les Films du Jeudi
Un anno dopo aver contribuito a fondare il gruppo SLON (Société de Lancement des OEuvres Nouvelles) e dopo il collettivo Loin du Viêt-nam, Chris Marker filma in 16mm il giorno di un'utopia: il 21 ottobre 1968 centomila giovani studenti e una minoranza di hippy che rifiutano la guerra del Vietnam, "rompono con la tradizione delle marce platoniche", e trentacinquemila di loro entrano nel sacro spazio militare del Pentagono, illudendosi di "paralizzare per un istante la macchina da guerra". A distanza di quarantacinque anni il mediometraggio realizzato da Marker con l'apporto di vari operatori (fra i quali François Reichenbach) condensa l'utopia di una generazione: quella dei giovani studenti americani che bruciano i fogli matricolari in un rito liberatorio (che costerà loro cinque anni di prigione) e protestano contro l'orrore di una guerra di cui hanno riconosciuto l'assurdità, allestendo piccoli spettacoli di mimi e canzoni, ascoltando gli oratori che li incitano a ribellarsi contro la guerra in un happening festoso e pacifico. Marker ritrae i volti di questi ragazzi che sognano di cambiare il mondo ma filma anche i lineamenti dei neonazisti statunitensi, che sembrano discendenti dei loro antesignani tedeschi. Riassumono il loro 'pensiero' in una scritta - "Gasate i Viet" - al cui proposito Marker commenta: "il loro argomento è lo stesso dei generali". Nello stesso spazio, divenuto emblematico, ci sono anche altre Americhe e Marker riprende scene che definisce di "follia americana": un prete che tuona da un pulpito improvvisato contro il comunismo ateo, con la scritta sottostante "fate prima la guerra e poi l'amore", intanto "gli altoparlanti fanno dialettica e gli hippy esorcizzano". Poi sfilano gli ex combattenti, alcuni della seconda guerra mondiale, altri, molto più giovani, già reduci dal Vietnam. Nel commento over Marker racconta anche come si sia sviluppata la rivolta e ricorda il caso dell'Università di Brooklyn, tradizionalmente tranquilla, dove è sciaguratamente intervenuta la polizia per reprimere pochi ribelli provocando un'insurrezione generale in loro difesa: "eterna stupidità dei poteri". Ma anche i soldati, resi anonimi da elmi e uniformi, sono poco più che ragazzi e l'autore si sofferma su una fotografia in bianco e nero dove una giovane tende una rosa ai militi, poi la getta ai loro piedi dicendo "Nessuno di voi avrà il coraggio di raccogliere un fiore". Poi il clou: una dozzina di manifestanti si accorge di un varco nel servizio d'ordine e ne approfitta, arrivando sulla soglia di una porta del Pentagono, dove però vengono malmenati dai militari. Uno dei manifestanti sanguina copiosamente dalla testa ma non si ferma: il primo piano del suo volto indignato diventerà anche una celebre inquadratura ripresa in Le Fond de l'air est rouge (1977).
Roberto Chiesi
A year after helping set up the group SLON (Société de Lancement des OEuvres Nouvelles), and subsequent to the collective effort Loin du Viêt-nam, Chris Marker made a 16mm film commemorating a day of utopia: on October 21, 1968 one hundred thousand young students, flanked by a smaller group of hippies, repudiated the war in Vietnam, "breaking with the tradition of Platonic marches". Thirty-five thousand of them breached that sacred military space known as the Pentagon, thinking they would be able "for one instant to paralyze the War Machine". Fortyfive years later, Marker's medium-length film, made with the help of a number of cameramen, including François Reichenbach, sums up the utopia of a generation. Young American students burned their draft cards in a rite of freedom (an act which would cost them five years in jail) and protested against a war they recognized as absurd in a peaceful and celebratory 'happening'. The event included performances, mime shows and concerts, and rousing speeches inciting them to rebel against the war. Marker records the faces of these kids who dreamed of changing the world, but also the features of their American neo-Nazi antagonists, who look like direct descendents of their German forebears, their credo summed up in a sign: "Gas the Vietnamese". Marker commented that, "their arguments are the same as the generals". It became emblematic at the time that there were many different "Americas", and Marker filmed scenes that defined the "American madness": a preacher thundering from an improvised pulpit against communist atheism, with a sign saying, "first make war and then make love", while "loudspeakers spout dialectics and hippies exorcize". Then there is a veterans' parade, with some soldiers from the Second World War, and others, much younger, already returned from Viet Nam. In the voice-over, Marker tells how the protest came to be organized and reminds us of the story from Brooklyn University, traditionally a peaceful campus, where the deplorable action by the police to repress a handful of protesters resulted in a major insurrection in their defense: "the eternal stupidity of the powerful". But even the soldiers, rendered anonymous in their uniforms and helmets, are little more than children. The director pauses on a black and white photo of a youth holding out a rose to the soldiers, and then throwing it to the ground, declaring, "None of you even have the courage to pick a flower". And the key scene: a dozen protesters notice a gap in the wall of police and take advantage to attempt to storm the Pentagon, getting as far as the entrance, where they are beaten back by police. One of the protesters, bleeding profusely from a head wound, refuses to be stopped. The close up on his indignant face was also to become one of the most famous images in Le Fond de l'air est rouge (1977).
Roberto Chiesi
Tariffe:
Numero posti: 144
Aria condizionata
Accesso e servizi per disabili
Il nostro cinema aderisce al circuito CinemAmico: è possibile utilizzare l’applicazione MovieReading® per i film di cui è prevista audiodescrizione e/o sottotitolazione sull'applicazione.
Tel. 0512195311