Bonjour Mr. Lewis!
Sei parti di cinquanta minuti l’una, proiettate lungo la settimana del festival, per un capolavoro (quasi) sconosciuto tra i film d’archivio, realizzato nel 1982 dallo storico e cineasta francese Robert Benayoun. L’accesso ai ricchissimi e ordinati archivi personali di Jerry Lewis, filtrato dalla rabdomantica sensibilità di Benayoun, ha prodotto un film-miniera di sequenze, rari numeri televisivi, backstage, interviste: viaggio appassionante nella carriera di un gigante del cinema americano, total filmmaker (regista, sceneggiatore, coreografo, produttore e superstar), genio dello spazio fisico, indiscusso king of comedy.
L’esperienza più piacevole che ho vissuto come membro di una giuria ha avuto luogo a Barcellona nel 1984, sotto l’ala del grande José Luis Guarner. Premiammo due grandi serie televisive: Hollywood di Brownlow e Gill e Bonjour M. Lewis di Robert Benayoun. Se Hollywood è oggi difficilmente reperibile, la serie da sei ore dedicata a Jerry Lewis è praticamente introvabile da quasi trent’anni. Non immaginavamo che nei decenni successivi non sarebbe apparso niente che fosse in grado di eguagliare quelle due serie.
Il materiale d’archivio di Bonjour M. Lewis è una festa per gli occhi. Scene scartate, sketch, parodie, omaggi ai colleghi, scandalosi home movie (che comprendono Come Back Little Shiksa ma non i filmini su Notorious o quello intitolato Son of Lifeboat). (Quando ci parlai, Benayoun mi fece notare la straordinarietà di questo materiale in una città che aveva consentito la distruzione degli studios di Chaplin).
E soprattutto c’è tutto il materiale televisivo, noto agli americani e sconosciuto agli europei che hanno imparato ad apprezzare Jerry Lewis e Dean Martin grazie a film diretti da grandi artigiani come George Marshall o Norman Taurog (e i due magnifici film di Frank Tashlin, fantastico finale di carriera della coppia). Cosa possono aggiungere a questa conoscenza i programmi televisivi? Più spontanei e selvaggi, essi sintetizzano la coscienza popolare americana, ne sono il sottilissimo minimo comune denominatore.
Se l’avvento della televisione nel 1949 rivoluzionò – come afferma lo stesso Jerry Lewis – la vita quotidiana, possiamo dire che lo spettacolo Martin-Lewis mise a fuoco quel punto di svolta. I due avevano messo alla prova la loro popolarità nei programmi di Ed Sullivan e Milton Berle, ma fu quello spettacolo a consacrarli: erano tutt’uno con la magia del nuovo mezzo, l’essenza della televisione.
Il ruolo di Dean Martin – perfetta incarnazione dell’uomo normale in contrasto con il clown e il poeta del subconscio impersonato da Jerry – è spesso sottovalutato, con grande disappunto di Lewis. Eppure la collaborazione si interruppe, lasciando interdetti milioni di adolescenti. John Landis ha detto che per molti giovani la separazione tra Dean Martin e Jerry Lewis fu più dolorosa del divorzio dei genitori. Un filmato indimenticabile mostra la riunione: c’era voluto un Frank Sinatra per rimetterli insieme. Un altro momento leggendario è il Telethon, la ventiquattr’ore benefica condotta per anni da Jerry, grottesca ma anche struggente nel suo rivelare l’anima innocente, fragile e spaventosa dell’America. Ci viene poi offerta la sequenza della metamorfosi di The Nutty Professor nella lunghezza originale, che almeno su di me ha un effetto completamente nuovo e spiazzante.
Ho volutamente tenuto per ultima l’altra metà dell’incredibile materiale di Benayoun: le interviste. I colleghi di Lewis spiegano quanto Jerry abbia influenzato loro e la cultura americana in generale: vediamo avvicendarsi Spielberg, Bogdanovich, Scorsese, Landis, il magnifico Mel Brooks (anima affine, testimone del fatto che non si può portare al limite estremo la follia pura e che solo Jerry ci riesce, con la sua tecnica impeccabile), Marty Feldman, Federico Fellini.
Robert Benayoun gestisce il materiale con disinvoltura ed eleganza; questo prezioso concentrato di cultura popolare (nel quale si definisce anche, en passant ma senza superficialità, la concezione ebraica della cultura e della comicità) è un collage magistrale, uno spettacolo travolgente ma anche uno sguardo attento sulla schizofrenia di un’epoca, su un orrore che ha inghiottito e infantilizzato un paese. Ed è anche lo spettacolo più divertente e appassionante che si possa immaginare.
Peter von Bagh