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Cecilia Mangini: una donna che dice parolacce

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Alla fine degli anni Cinquanta, in un mondo pressoché totalmente presidiato da uomini, il produttore Lucisano propone a Cecilia Mangini di girare un documentario. Nasce così Ignoti alla città, ispirato al romanzo dello stesso Pasolini, Ragazzi di vita, uscito nel 1955.

La Mangini sceglie di raccontare i ragazzi delle borgate, emarginati che vivono nel cono d'ombra creato dal boom economico e vuole un commento di Pasolini. Trova l'indirizzo sull'elenco telefonico. Basta una telefonata, una seduta alla moviola e il poeta accetta. In pochi giorni si presenta a Cecilia con il testo: perfetto.
"Essere caduti dal seno della madre sul fango e sulla polvere di un deserto che li vuole liberi e soli, essere cresciuti in una foresta, dove i figli lottano con i figli per educarsi alla vita dei grandi: essere ragazzi in una città, fatta per la pietà e la ricchezza, senza sapere altro che la propria fame...".

Il loro incontro dà vita ad altre due straordinarie collaborazioni.
Con Stendalì (ancora suonano) (1960), Cecilia Mangini abbraccia la lezione di De Martino e registra la rappresentazione di un rituale della cultura contadina e pre-cristiana a Martano, un paesino del Salento: le lamentazioni funebri in griko delle prefiche. Senza vedere le immagini, Pasolini le dona un testo sublime che nasce da una personalissima rielaborazione di questi canti antichi.

Con La canta delle marane (1962), la Mangini entra in profondità nel giovane tessuto umano delle periferie. Ancora una volta sono ' i ragazzi di vita' i protagonisti; Ingestibili, sfacciati. Cecilia gira con loro, in mezzo a loro e impreca, urla per poter avere la loro attenzione. Le parolacce lasciano attoniti gli adolescenti che nella mente hanno un'idea di donna lontanissima da quella che hanno di fronte a loro. Ceclia li conquista. E ottiene un altro scritto da Pasolini: "Facevamo tutto quello che nun dovevamo fà. Ciavevamo proprio la passione da fà disperà er mondo. Ah, che soddisfazione sentisse dì: 'Lì er bagno nun lo dovete fà', e invece noi no, invece de uno se ne facevamo cento. Alla faccia de tutti! Nun ciarreggeva nemmeno er diavolo! Per noi la marana era come il Mississipì".

Il documentario Divino amore si credeva perduto. Pur essendo stato premiato al Festival dei Popoli nel 1962, non aveva ottenuto il premio di qualità, «il sistema per condannare a morte qualsiasi opera cinematografica senza lo scandalo di proibirla in sede di censura »– racconta Cecilia Mangini.
La condanna era irreversibile perché questo significava anche non conservarne una copia presso la Cineteca nazionale. E per essere certi che scomparisse per sempre il produttore Patara ne ha smembrato il negativo per utilizzarlo in un altro film di montaggio.

Contro ogni logica previsione, il documentario è sopravvissuto, nascosto chissà come, nelle teche della Rai e oggi finalmente torna a vivere in sala.

E non si può pensare che, visto l'argomento trattato – i pellegrinaggi presso il santuario del Divino amore – non si tratti di un miracolo, lo stesso miracolo che Cabiria, nel film di Fellini, sognava di veder realizzato.

 

Cecilia Mangini sarà ospite della Cineteca martedì 15 marzo, nell'ambito della rassegna Integrale Pasolini. Parte V: il Cristo degli ultimi.

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